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26 novembre 2014

L'IPOTECA SOSPENDE LA SENTENZA

Ordinanza della Ctr Milano: istanza ripetibile se mutano le condizioni economiche

Diritto di garanzia sufficiente alla pretesa erariale

La presenza di un'iscrizione d'ipoteca sui beni del contribuente, effettuata dall'Agente della riscossione a tutela del credito erariale, consente al giudice tributario di sospendere l'esecuzione della sentenza di secondo grado contro cui è pendente il ricorso per cassazione. La perdita del bene per vendita forzosa, infatti, integra il requisito del periculum in mora e, d'altro canto, la pretesa erariale risulta già adeguatamente cautelata dall'esistenza della misura ipotecaria.

Di più. L'istanza per ottenere la sospensione, che va indirizzata alla stessa commissione regionale che ha emesso la sentenza, può essere proposta più volte, in ragione delle mutate condizioni economiche del richiedente. Sono le interessanti conclusioni rese dalla sezione 28 della Ctr di Milano, nella ordinanza n.1636/28/2014 dello scorso 12 novembre.

La vicenda prendeva le mosse dall'emissione di una sentenza di secondo grado, con cui il giudice tributario lombardo condannava una società meneghina al pagamento di imposte per oltre 4 milioni di euro. La società presentava dapprima il ricorso per cassazione e, successivamente, proponeva istanza alla stessa commissione regionale, ai sensi dell'articolo 373 del cpc, per ottenere la sospensione della predetta sentenza tributaria, onde evitare danni ingenti che sarebbero potuti derivare dalla vendita all'asta di un bene di interesse storico, già oggetto di iscrizione ipotecaria da parte di Equitalia.

La prima istanza di sospensione veniva respinta per assenza dei presupposti per concedere la sospensione. A distanza di diversi mesi, il contribuente proponeva di nuovo l'istanza di sospensione, rendendo nota alla commissione l'esistenza di una misura ipotecaria sul bene immobile della società, quale atto prodromico alla sua vendita forzosa. Questa volta i giudici regionali hanno accolto l'istanze e disposto la sospensione dell'esecuzione della sentenza.

«Circostanza determinante», osserva la Ctr, «appare essere l'esistenza di un'adeguata copertura cautelare in relazione al credito erariale, costituita dall'iscrizione ipotecaria che grava sul bene, essendo non contestato che il valore del cespite appare sufficientemente capiente a coprire l'importo iscritto a ruolo». Dare seguito all'ipoteca attraverso la vendita all'asta del bene, si porrebbe quale «eccesso di cautela, soprattutto in ragione della non definitività della sentenza portata in esecuzione» e rappresenterebbe, al contempo, un danno grave e irreparabile quale la perdita del bene medesimo.

Da ultimo, aggiunge la sentenza in commento, il fatto di aver già proposto una precedente istanza (rigettata) non si pone come ostacolo alla nuova richiesta di sospensione, poiché «non si configura alcuna ipotesi di consumazione dell'azione giudiziale, posto che si tratta di una misura cautelare che il giudice è tenuto a valutare in ragione delle contingenze in ci versa l'istante al momento di proposizione della domanda che, quindi, può essere riformulata in differenti momenti, in relazione alle mutate condizioni sociali, economiche e finanziarie».

Testata: Italia Oggi
Autore: Benito Fuoco e Nicola Fuoco

RICLASSAMENTI CON TERMINE DI PARAGONE

Se l'Agenzia del territorio (oggi delle entrate) notifica al contribuente un atto di riclassificazione di un immobile, la stessa deve obbligatoriamente indicare, all'interno dell'avviso, le caratteristiche e le peculiarità dei fabbricati utilizzati per la comparazione, oltre che i relativi dati catastali, a pena di nullità dell'atto.

Così i giudici della Suprema corte di cassazione che, con la sentenza 24821/14, pronunciata lo scorso 23 ottobre, sono intervenuti sulle corrette modalità di redazione dell'avviso di riclassamento degli immobili. Il ricorrente, che aveva vinto in entrambi i primi gradi di giudizio, e i giudici della commissione tributaria regionale avevano affermato che l'atto di classamento era viziato per l'inesatta fonte normativa applicata, per l'assenza del sopralluogo e di un contraddittorio con il contribuente ma, soprattutto, perché il detto atto non indicava la tipologia, le caratteristiche e il classamento degli immobili che l'ufficio periferico del Territorio aveva utilizzato ai fini comparativi, per riclassificare l'immobile oggetto dell'avviso impugnato.

L'Agenzia del territorio aveva promosso il ricorso per cassazione, ma i giudici di legittimità hanno definitivamente rigettato il ricorso, ritenendo i motivi addotti dall'ufficio infondati, perché già in sede di primo grado era chiaramente emerso che il Territorio aveva omesso l'indicazione degli immobili simili a quello oggetto di accertamento, ritenendo sufficienti l'indicazione della categoria, della classe e della rendita.

Al contrario, la Suprema corte ritiene che, quando l'ufficio procede in tal senso, utilizzando un metodo comparativo, a salvaguardia della difesa del contribuente e a pena di nullità dell'atto emanato, lo stesso deve motivare l'avviso notificato, indicando al suo interno la specifica individuazione dei fabbricati utilizzati per la comparazione, il relativo classamento, le specifiche caratteristiche che li rendono similari all'unità immobiliare oggetto del riclassamento.

Tali indicazioni mettono in condizione il contribuente di esercitare il proprio diritto alla difesa, rispondendo alla funzione di delimitare l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio in sede contenziosa.

Pertanto, l'atto si dovrà ritenere «nullo», per difetto di motivazione, ogniqualvolta l'ufficio eviti di indicare gli immobili utilizzati per la comparazione, ma anche quando non espliciti chiaramente le peculiarità degli stessi (Cassazione, sentenze n. 21532/2013 e n. 10489/2013).

Testata: Italia Oggi
Autore: Fabrizio G. Poggiani



AI COMUNI 30 ANNI PER COPRIRE I BUCHI DA ENTRATE NON INCASSATE

Enti locali. Riscossione, ipotesi consorzio Anci-Equitalia

EQUILIBRI DI BILANCIO Mancati incassi, copertura del fondo crediti più lenta. Rivisto al rialzo il Patto di stabilità ma resta inferiore rispetto a oggi

MILANO. I Comuni avranno fino a 30 anni di tempo per coprire i buchi che si apriranno nel 2015 con la ripulitura dei bilanci dalle entrate non incassate, mentre sulla riscossione prossima ventura si profila un intervento che ritenta la strada del consorzio fra Equitalia e Anci. In fatto di mancati incassi diventa più lenta anche la copertura per il nuovo «fondo crediti», mentre si rivede al rialzo il Patto di stabilità che rimane comunque assai più generoso rispetto a oggi.

Il primo pacchetto di emendamenti del Governo al capitolo enti locali della legge di Stabilità 2015 conferma le anticipazioni della vigilia: fino a sera, poi, si è lavorato all'emendamento per dare la possibilità per i sindaci di non concentrare sulla spesa corrente tutti i tagli chiesti dalla nuova spending review (1,2 miliardi, più 300 milioni ereditati da manovre precedenti), rivolgendosi quindi anche agli investimenti. Gli effetti di quest'ultima norma, che l'associazione dei costruttori definisce «un brusco passo indietro perché senza gli investimenti il Paese muore», potrebbero però essere attenuati da altri due correttivi: i 125 milioni statali per pagare gli interessi su nuovi mutui dei Comuni, e la possibilità di stipulare finanziamenti fino a quando gli interessi non raggiungono il 10% delle entrate da tributi, tariffe e trasferimenti (oggi il limite è all'8%), mentre si permette anche di rinegoziare (senza però copertura statale) finanziamenti già ristrutturati, entro un orizzonte temporale di 30 anni. Per aiutare le fusioni spunta l'esenzione quinquennale dal Patto di stabilità ai Comuni che si uniscono.

Sempre per aiutare la quadratura dei conti comunali, si allungano al 2015 due norme "temporanee" che permettono di chiedere anticipazioni di tesoreria fino a 5/12 delle entrate accertate nel penultimo anno precedente (il limite ordinario è 3/12) e di utilizzare il 75% degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente. Via libera anche alla copertura statale da settembre delle spese di giustizia (con costi standard).

Sui bilanci, il cuore della manovra è nel dosaggio fra spesa corrente e investimenti. La prima versione puntava tutto sui secondi, tagliando del 70% gli obiettivi del Patto in cambio dell'obbligo per gli enti locali di accantonare nel nuovo «fondo crediti» risorse pari al 50% del tasso di mancate riscossioni degli ultimi cinque anni (per arrivare al 100% in tre anni). Gli emendamenti di ieri riaprono un po' sulla spesa corrente, limano l'obbligo di accantonamento dal 50 al 36% e offrono un maxi-sconto agli enti che già sperimentano la nuova contabilità: nel 2015 avrebbero dovuto congelare il 100% del tasso di mancate riscossioni, mentre con il correttivo si scende al 55%.

La stessa percentuale riguarderà tutti gli enti nel 2016, per crescere e arrivare al 100% solo nel 2020. I mancati accantonamenti hanno però un costo per i saldi di finanza pubblica, e per questa ragione l'obiettivo di Patto chiesto ai Comuni nel 2015 sale un po' rispetto al testo originario: per calcolarlo gli enti dovranno applicare un coefficiente dell'8,6% (invece del 7,71%) alla spesa corrente media 2010/12.
Testata: Il Sole 24 Ore
Autore: Gianni Trovati

CASE IN FRINGE BENEFIT: LA SOCIETÀ PUÒ SEMPRE ACCOLLARSI LA TASI

Come trattare a fini Tasi gli immobili concessi sotto forma di fringe benefit da una società a un dipendente, oppure ad un amministratore?

 Il dubbio nasce dalla lettura dei commi 669 e 681 dell’articolo 1 della legge di stabilità per il 2014 (legge 147/2013). Infatti, il primo dei due stabilisce come requisito oggettivo, ai fini dell’applicazione della Tasi, «il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di fabbricati, ivi compresa l’abitazione principale come definita ai fini dell’imposta municipale propria».
Questo requisito sembra sussistere nel caso in cui l’immobile sia concesso in uso al dipendente o amministratore della società in fringe benefit: questo tipo di emolumento retributivo (in base all’articolo 51, comma 4, lettera c) del Tuir) consente di beneficiare di una tassazione agevolata e (in base al successivo articolo 95, comma 2) di una piena deducibilità in capo alla società dei costi afferenti al fabbricato nel caso in cui gli assegnatari vi trasferiscano la residenza, sia per il periodo d’imposta del trasferimento che per i due successivi .
Questo distinguo, in termini di benefit, assume rilievo in relazione al fatto che «nel caso in cui l’unità immobiliare è occupata da un soggetto diverso dal titolare del diritto reale sull’unità immobiliare, quest’ultimo e l’occupante sono titolari di un’autonoma obbligazione tributaria». In questo caso, infatti, la norma prevede che l’occupante versi la Tasi «nella misura, stabilita dal comune nel regolamento, compresa fra il 10 e il 30 per cento dell’ammontare complessivo». A ciò si aggiunga che, la stessa norma istitutiva, ha previsto (al comma 673) che, nell’ipotesi in cui la detenzione abbia una durata non superiore a sei mesi, nel corso del medesimo anno solare, il tributo non va versato dal detentore.
Vediamo ora le possibili soluzioni. Una prima ipotesi che può delinearsi è quella in cui la società conceda in uso al dipendente l’immobile in fringe benefit senza che questo vi trasferisca la residenza. In tal caso, il tributo va versato integralmente dalla società solo nel caso in cui la detenzione dell’immobile da parte del dipendente sia inferiore a sei mesi. Altrimenti, per durate superiori, la «detenzione a qualsiasi titolo» farebbe scattare l’obbligo di pagare la percentuale compresa tra il 10 e il 30 per cento.
Ma qui cominciano i problemi, perché – trattandosi di un bonus – il dipendente potrebbe anche non utilizzare l’appartamento messogli a disposizione, senza assumere così la qualifica di occupante. Del resto, per il Comune potrebbe diventare un compito diabolico riuscire a dimostrare, in assenza di un vero e proprio contratto di locazione o comodato registrato, né di una residenza anagrafica, la detenzione da parte del dipendente e il relativo pro-quota di imputazione del tributo.
A questo punto, una soluzione pratica è quella che la società comunichi l’intervenuto accollo della quota del detentore al Comune, sulla base di quanto previsto dall’articolo 8 dello Statuto del contribuente (legge 212/2000). Soluzione peraltro non preclusa neppure nell’ipotesi in cui il dipendente trasferisca la residenza nell'immobile, oltre che - in generale - in altri casi di occupazione del fabbricato.

Testata: Il Sole 24 Ore

Autore: Pierpaolo Cerolie Gianluca Natalucci

25 novembre 2014

ATTO NOTIFICATO, MA IN CHE GIORNO?

Lo dichiara e lo prova il ricevente

La regola vale qualora l’interessato non contesti di non aver avuto la cartella con la pretesa tributaria, ma si limiti a metterne in discussione la data di consegna

Nella notifica postale, il raggiungimento dello scopo, ovvero l’intervenuta conoscenza dell’atto, sposta l’onere probatorio, in ordine alla data di effettiva ricezione, sulla parte che agisce in giudizio per far valere una pretesa da esercitare entro un termine decadenziale.
Questo, in sintesi, l’innovativo principio affermato dalla sezione tributaria della Cassazione con la sentenza 23213 del 31 ottobre 2014, ove è stato precisato che la regola in questione opera quando l’interessato non contesta di non aver ricevuto l’atto tributario, ma si limita soltanto a mettere in discussione la data di consegna.

La vicenda di merito e il ricorso in Cassazione
Una società ricorreva avverso la cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato ai sensi degli articoli 36-bis del Dpr 600/1973 e 54-bis del Dpr 633/1972, con la quale le era stata irrogata la sanzione e liquidati gli interessi moratori per ritardato versamento degli importi dovuti a titolo di Iva, Irpeg e Irap, esposti nella dichiarazione presentata per l’anno 2002.

La sfavorevole pronuncia di primo grado veniva impugnata dalla contribuente nella Commissione tributaria regionale, che rigettava l’appello ritenendo che l’istante non poteva fruire della riduzione al 10% dell’importo della sanzione, in quanto la cartella risultava notificata il 20 ottobre 2006 e il versamento delle somme richieste era stato eseguito soltanto il successivo 22 novembre, oltre il termine di 30 giorni entro il quale avrebbe dovuto essere effettuato per avvalersi del beneficio.

La pronuncia del giudice regionale veniva sottoposta al parere della Cassazione.
Per quanto d’interesse, la società lamentava che la Ctr aveva erroneamente ritenuto perfezionato il procedimento notificatorio (prima della “comunicazione di irregolarità” e poi) della cartella, pur in mancanza della prova della consegna di detti atti, non avendo l’ufficio prodotto in giudizio gli avvisi di ricevimento della notifica eseguita a mezzo del servizio postale.

La pronuncia di legittimità
La Corte ha ritenuto infondata la doglianza, rilevando in primis che, essendo la disciplina della notificazione finalizzata a portare a conoscenza del destinatario l’atto notificato, “eventuali vizi del procedimento notificatorio rimangono sanati, in virtù del principio generale di conservazione degli atti giuridici, laddove la notifica se pure viziata abbia comunque raggiunto il risultato della conoscenza dell’atto da parte del destinatario” (principio della “sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo” fissato dall’articolo 156, terzo comma, cpc).

Nel caso di notificazione a mezzo posta, spiega la pronuncia, vale la regola per cui la mancanza della prova legale, costituita dall’avviso di ricevimento dell’atto, non può essere surrogata dalle informazioni presenti in registri o archivi informatici, quali, ad esempio, i dati dell’Anagrafe tributaria, né da attestazioni dell’ufficio postale relative alla data di consegna dell’atto.
Peraltro, laddove l’interessato non contesti di aver effettivamente ricevuto l’atto tributario, ma si limiti soltanto a mettere in discussione la data di consegna (nella specie, quella risultante dagli estratti dell’Anagrafe tributaria e dall’attestazione dell’ufficio postale prodotto in giudizio dall’ufficio), il raggiungimento dello scopo (cioè l’effettiva conoscenza dell’atto) realizzato attraverso la notifica postale, “viene a spostare l’onus probandi in ordine alla data di effettiva ricezione dell’atto sulla parte che agisce in giudizio per far valere una pretesa… il cui esercizio è assoggettato a termine di decadenza, nella specie stabilito in relazione al dies a quo della data di effettiva consegna dell’atto notificato”.
In sostanza, secondo il Collegio di piazza Cavour, spetta all’interessato fornire la prova del presupposto di valido esercizio del diritto, ovvero la tempestività del pagamento rispetto alla data di notifica dell’atto, mentre l’ufficio “avrebbe potuto anche limitarsi a contestare soltanto la tardività del versamento, senza ulteriori specificazioni, e cioè ad eccepire la decadenza dal termine per la fruizione del beneficio”.

Dal rigetto del ricorso è derivata anche la condanna della parte privata alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Agenzia, liquidate in 7mila euro per compensi, oltre le spese prenotate a debito.

Osservazioni
In materia tributaria, la legge stabilisce che gli atti, con i quali l’ufficio o l’ente impositore, nell’esercizio delle proprie potestà, manifestano una pretesa fiscale, debbono essere portati legalmente a conoscenza del contribuente attraverso la notificazione.
Per gli atti tributari, la notificazione può essere eseguita anche a mezzo del servizio postale, sia mediante le forme fissate dalla legge 890/1982, attraverso la spedizione dell’atto a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento (AR) di colore verde (“per atti giudiziari), sia – per alcuni specifici atti – utilizzando la raccomandata “ordinaria” (quella con AR di colore bianco).
In entrambi i casi, all’AR che accompagna il piego viene attribuita una peculiare valenza probatoria, tanto è vero, ad esempio, che l’articolo 4 della legge 890/1982 prevede che tale documento “costituisce prova dell’eseguita notificazione” e che i termini che decorrono dalla notifica postale “si computano dalla data di consegna del piego risultante dall’avviso di ricevimento…”.
L’AR, in linea generale, non ammette equipollenti, nel senso che la sua mancanza non può essere surrogata da informazioni presenti in banche dati o registri informatici (salvi alcuni casi particolari: ad esempio, in base all’articolo 55, comma 6, del Dlgs 104/2010 – “Codice del processo amministrativo” – nell’ambito del giudizio cautelare, se la notificazione è effettuata a mezzo del servizio postale, il ricorrente che non è ancora in possesso dell’AR, può provare la data di perfezionamento della notifica “producendo copia dell’attestazione di consegna del servizio di monitoraggio della corrispondenza nel sito internet delle poste”).

Tanto premesso, c’è da dire che la pronuncia in esame – che, a quanto consta, non ha precedenti – contiene un principio interpretativo piuttosto dirompente rispetto al quadro giurisprudenziale formatosi in materia di notificazioni.
Certamente, l’affermazione secondo cui grava sulla parte, che intende avvalersi del diritto alla riduzione dell’importo liquidato a titolo di sanzione, provare la tempestività del pagamento rispetto alla data di notifica risente anche della motivazione della sentenza di appello dove, secondo quanto si legge nella sentenza, i giudici “hanno esaminato puntualmente gli elementi probatori dedotti dalle parti, pervenendo in seguito a compiuta valutazione probatoria a ritenere comprovata la data della notifica tanto della comunicazione di irregolarità, quanto della cartella di pagamento”.

Di contro, peraltro, la regola iuris sancita nella pronuncia in commento non è un assunto meramente incidentale, ma costituisce il risultato di un ben preciso e articolato percorso argomentativo.
Allo stato, dunque, non resta che prendere atto della sentenza e attendere altre pronunce di legittimità sul tema, per verificare se l’indirizzo oggi affermato possa o meno trovare conferma.

Autore: Massimo Cancedda
Fonte: FiscoOggi

24 novembre 2014

DICHIARAZIONE “IMU/TASI ENC”: INVIO MODELLO ENTRO IL 1° DICEMBRE

Trasmissione solo telematica attraverso i canali Entratel e Fisconline dell’Agenzia delle Entrate. Disponibile anche il pacchetto informatico per la verifica dei file predisposti

Ancora una decina di giorni, a disposizione degli enti non commerciali, per presentare la dichiarazione Imu/Tasi e le istruzioni relativa agli anni 2012 e 2013. L’ultima data utile è lunedì 1 dicembre, visto che il giorno di scadenza - 30 novembre - capita di domenica (il termine fissato originariamente al 30 settembre è slittato in avanti di due mesi con il decreto Mef dello scorso 23 settembre).
Quest’anno, in realtà, l’adempimento rileva esclusivamente ai fini dell’imposta municipale sugli immobili, perché la Tasi parte dal 2014.

Gli immobili utilizzati dagli Enc usufruiscono di un regime speciale che esenta dai due tributi le aree adibite ad attività no profit ed è per questo che “speciale” è anche il loro modello di dichiarazione. Si chiama “Imu Tasi Enc” ed è un modulo riepilogativo che ospita, contemporaneamente, le strutture a esenzione totale, parziale e proporzionale.
In pratica, rispetto alla norma originaria, l’agevolazione è applicabile anche in caso di fabbricati a utilizzazione “mista” e cioè anche se nello stesso immobile l’ente svolge sia attività commerciali sia attività senza fini di lucro, elencate nell’articolo 7, comma 1, lettera i, del Dlgs 504/1992.
Tutto facile quando è possibile distinguere con esattezza i locali adibiti alle due differenti funzioni, più difficile stabilire la porzione non sottoposta a tassazione quando la distinzione non è così netta. A risolvere il problema, il Dm 200/2012, il regolamento che definisce, in base ai dati forniti dall’ente (personale, metrature, eccetera), in che proporzione l’immobile è tassato.

La trasmissione della dichiarazione deve avvenire necessariamente on line attraverso i canali telematici Entratel e Fisconline messi a disposizione dall’Agenzia delle Entrate, pronti ad accogliere i modelli già dallo scorso 21 ottobre. Sul sito dell’Agenzia disponibile anche il pacchetto informatico che consente di verificare che i file predisposti sono conformi ai criteri necessari per terminare la procedura di inoltro.

A regime, la dichiarazione andrà inviata entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui si è entrati in possesso dell’immobile o sono intervenute variazioni rilevanti ai fini della determinazione del tributo. La dichiarazione, quindi, va rinnovata soltanto in caso di cambiamenti significativi per il fisco.

Anna Maria Badiali

NIENTE TARI SUI MAGAZZINI DELLE IMPRESE E AREE COLLEGATE ALLA PRODUZIONE

I Comuni non possono applicare la Tari ai magazzini e alle aree che sono "funzionalmente ed esclusivamente collegate all'attività produttiva", e più in generale, nei loro regolamenti, possono solo ampliare i criteri di esclusione di spazi aziendali dalla tassazione, mentre non possono proporre criteri che finiscono per ridurre le aree escluse dal tributo.
A dirlo è il dipartimento Finanze, che risponde in questo modo a una richiestadi chiarimenti presentata da un'azienda bergamasca. La risposta ministeriale è stata prontamente inoltrata da Confindustria Bergamo e Confindustria Brescia alle centinaia di Comuni delle due Province, dove appare destinata a rimettere in discussione parecchi regolamenti locali sulla Tari. Ma il problema, ovviamente,è nazionale, e nasce dalla estrema variabilità delle decisioni comunali su un tema, quello dei confini della Tari nelle aree produttive, regolato da norme controverse è oggetto di un braccio di ferro ricorrente fra imprese da un lato e aziende di igiene urbana ed enti locali dall'altro.

Il principio di riferimento 
Il principio generale vieta di applicare la Tari alle aree che producono rifiuti speciali, che le imprese devono smaltire in proprio certificando poi di aver provveduto. La sua applicazione, però, è complicata dalla possibilità che i Comuni hanno di "assimilare" alcuni rifiuti speciali a quelli urbani, portandoli quindi nel raggio di applicazione del tributo. Per la legge (comma 649 dell'ultima legge di stabilità, la n. 147/2013), questa assimilazione si deve fermare all'esterno delle aree "produttive di rifiuti speciali in vi continuativa o prevalente", ed è proprio questo criterio a scatenare continue battaglie interpretative fra aziende e amministrazioni locali.
L'interpretazione fornita 
Il documento con le istruzioni del dipartimento Finanze interviene a risolvere uno di questi casi, ma detta indicazioni chiare e destinate ad avere effetti su moltissime situazioni locali. L'azienda in questione si era vista infatti chiedere la Tari sull'intera area dell'impianto, con l'unica eccezione di quella destinata ai macchinari. Il ministero non si limita a bocciare questa linea, ma fissa un principio che esclude dal tributo tutte le aree "asservite" al ciclo produttivo, nelle quali si generano in via continuativa e prevalente rifiuti speciali. Niente Tari, quindi, nei "magazzini intermedi di produzione", ma nemmeno in quelli utilizzati per "lo stoccaggio di prodotti finiti", e nemmeno nelle aree scoperte che hanno le stesse caratteristiche. Questo, spiega il ministero, è il punto di partenza, dopo di che il regolamento comunale può solo "individuare ulteriori aree escluse dall'assimilazione, e quindi dalla tassazione". Secondo il ministero, solo in questo modo si evitano "ingiustificate duplicazioni di costi" (lo smaltimento autonomo di rifIuTi speciali viene ovviamente pagato dalle imprese, che quindi in questi casi non utilizzano il servizio comunale), che rischiano di sfociare in un "inutile e defatigante contenzioso". Ma non è finita qui.
Proprio il contenzioso sul passato porta a considerare i limiti di applicazione della Tarsu, e anche su questo versante le istruzioni del dipartimento Finanze conducono agli stessi risultati. Richiamando una "copiosa e non sempre univoca giurisprudenza della Corte di cassazione", le Finanze ribadiscono l'intassabilità ai fini Tarsu delle superfici dei magazzini anche se non esiste "un collegamento funzionale con le aree di produzione industriale", purché naturalmente non si producano in quei magazzini rifiuti ordinari.
Sempre dalla Cassazione (sentenza n. 30719/2011), il documento ministeriale richiama poi un principio che fatica a passare dalla giurisprudenza all'applicazione effettiva. Prima di decidere fino a dove spingere l'assimilazione, e quindi il tributo, il Comune deve valutare "la quantità di rifiuti che può gestire in efficienza, efficacia ed economicità", per evitare di avo siderale "urbani" rifiuti speciali solo quando si tratta di tassarli, e non quando invece occorre smaltirli.

Autore: Gianni Trovati

Fonte: IlSole24Ore

TASI: QUESTIONI ANCORA IRRISOLTE SULL'APPLICAZIONE DEL TRIBUTO IN ATTESA DELLA SUA SOSTITUZIONE

La fiscalità locale è in procinto di subire l’ennesima rivoluzione. Dopo un solo anno dall’entrata in vigore dell’imposta unica comunale (Iuc), il Governo ha annunciato l’intenzione di istituire un nuovo tributo comunale (local tax), destinato, come da più parti auspicato, a semplificare il panorama degli attuali prelievi comunali.


I dubbi interpretativi
In attesa di conoscere i dettagli del nuovo prelievo e quali saranno i tributi dallo stesso assorbiti, è forse opportuno ricordare le maggiori criticità che l’applicazione del tributo per i servizi indivisibili (Tasi) ha comportato nel corso del 2014, criticità non superate neppure dopo l’intervento ministeriale avvenuto con l’atipico strumento di prassi delle Faq (frequently asked questions).
Il primo aspetto che merita di essere ricordato riguarda la pluralità dei soggetti passivi del tributo. Come ben specificato dall’articolo 1, commi 671 e 681, della legge 147/2013, il tributo colpisce sia il possessore che il detentore dell’immobile, mediante la nascita di due distinte obbligazioni tributarie, tra loro autonome, ciascuna nella misura del tributo complessivo stabilita dal comune (utilizzatore tra il 10% ed il 30%).
Fin qui tutto chiaro, seppure alcuni dubbi hanno riguardato l’aliquota da applicare da parte di ciascuno dei due soggetti passivi laddove il comune abbia previsto aliquote differenziate in relazione alle diverse condizioni degli immobili. L’esempio classico è quello dell’abitazione affittata ad un soggetto che la utilizza come sua abitazione principale. Il Ministero, nella Faq n.13, ha confermato, anche sulla scorta dell’intervenuta modifica normativa, che per il detentore “il tributo è determinato con riferimento alla situazione del titolare del diritto reale sull’immobile” (articolo 1 comma 688, della legge 147/2013).

Ipotesi di più possessori o detentori
Le cose si complicano considerando la previsione di solidarietà dell’obbligazione nel caso di più possessori o di più detentori, prevista dall’articolo 1, comma 671, della legge 147/2013. Tenendo conto anche della previsione del comma 681, nel caso di una pluralità di possessori e di utilizzatori dello stesso immobile, si registrano due distinte obbligazioni tributarie tra loro autonome (una in capo ai possessori ed una in capo ai detentori), ciascuna al suo interno di natura solidale. Per quanto detto la norma porta a ritenere che nella fattispecie il versamento del tributo debba essere effettuato in modo unitario sia dai possessori, non essendo contemplata la loro responsabilità in base alle quote di possesso (come accade invece esplicitamente nell’Imu), sia dai detentori dell’immobile per la loro quota.
Il Ministero suggerisce che ciascun comproprietario debba effettuare il conteggio del tributo in base alla propria quota di titolarità, tenendo conto dell’aliquota applicabile alla sua situazione, poiché la solidarietà dell’obbligazione riguarderebbe non tanto la fase del conteggio dell’imposta e del suo versamento, ma solo quella della responsabilità in caso di inadempimento. Tuttavia tale posizione, per quanto autorevole e sicuramente ispirata a ragioni pratiche di semplificazione, non trova conforto nella legge, la quale non prevede una responsabilità pro-quota possessori, come invece accade nell’imposta municipale propria.
Ad ingenerare ancora più confusione ha contribuito poi l’interpretazione fornita da taluni secondo la quale il principio della suddivisione del pagamento pro-quota trova applicazione anche tra i detentori dell’immobile, dovendosi ricorrere, in mancanza di una quota di detenzione, alla suddivisione del tributo in base alla superficie occupata o in parti uguali tra tutti i co-detentori. In alcuni casi si registrano dubbi su chi sia il soggetto passivo del tributo, come nel caso in cui il proprietario abbia locato solo una parte della sua abitazione. In tale fattispecie, secondo il Ministero (Faq n. 17), l’inquilino è tenuto al versamento della sua quota, applicando comunque l’aliquota propria della condizione del proprietario (aliquota prevista per l’abitazione principale). Siffatta conclusione genera diverse perplessità, poichè la legge pare dare rilievo all’occupante come soggetto passivo solo quando l’immobile non è utilizzato dal proprietario e potrebbe avere l’effetto di porre un carico tributario spropositato in capo al detentore anche di una piccola porzione di un immobile.

Abitazioni concesse in comodato ai parenti fino al primo grado
Si pensi, inoltre, alle abitazioni concesse in comodato ai parenti fino al primo grado. Secondo il Ministero (Faq n. 19-23-24), in tutti i casi in cui si può parlare di abitazione principale, il soggetto passivo della Tasi è solo il titolare dei diritti reali sull’immobile e non l’utilizzatore. Quindi, nel caso di comodato, il figlio o il genitore comodatario non sarebbero soggetti passivi del tributo. Anche in questa ipotesi la soluzione scelta dal Ministero non trova conforto nella previsione di legge che, invece, sancisce la soggettività passiva dell’utilizzatore qualora sia diverso dal titolare dei diritti reali sull’immobile. Peraltro la posizione assunta dal Ministero nella Faq appena richiamata è contrastante con quella presente nella Faq n. 17, quando invece si dà rilievo, ai fini della soggettività passiva del tributo, al locatario di una porzione dell’unità immobiliare destinata ad abitazione principale del proprietario.

Unità immobiliari assegnate ai soci da parte delle cooperative edilizie a proprietà indivisa e degli alloggi sociali
Ad analoga conclusione il Ministero giunge nei casi delle unità immobiliari assegnate ai soci, per destinarle ad abitazione principale, da parte delle cooperative edilizie a proprietà indivisa e degli alloggi sociali (Faq n. 19). Ciò in quanto tali fattispecie sono da ritenersi equiparate per legge all’abitazione principale. Anche tale interpretazione non trova riscontro nella norma, poichè non si può non rilevare come, ai fini Imu, l’articolo 1, comma 707, della legge 147/2013 non equipara le fattispecie qui in esame all’abitazione principale, ma semplicemente le esclude dall’applicazione dell’imposta.

Abitazioni assegnate agli ex coniugi
Nel caso poi delle abitazioni assegnate agli ex coniugi, il Ministero pone la soggettività passiva in ogni caso tutta in capo al coniuge assegnatario, ritenendolo titolare di un diritto di abitazione, per analogia con la finzione giuridica prevista per la fattispecie nell’Imu dall’articolo 4, comma 12-quinquies, del Dl 16/2012. Anche in tale caso la conclusione non appare conforme alla legge, poichè quest’ultima è una norma speciale prevista per l’Imu e non richiamata nella Tasi.

Periodicità della commisurazione dell’obbligazione tributaria
Altro aspetto foriero di incertezze in capo ai contribuenti è la periodicità della commisurazione dell’obbligazione tributaria. Il Ministero (Faq n. 4) ha ritenuto applicabili le regole dell’Imu, con conteggio dell’imposta da effettuarsi a mesi. Peccato che una simile soluzione non trova analoga disciplina nella Tasi. Peraltro il Ministero ha espresso una posizione opposta a quella riscontrabile invece nello schema di regolamento Tares, reso disponibile nel proprio sito internet nell’anno 2013, allorquando si specificava che l’aspetto temporale del presupposto tributario, in mancanza in proposito di specifiche prescrizioni contenute nell’articolo 14 del Dl 201/2011(analogamente a quanto avviene nella norma dell’articolo 1, comma 671, della legge 147/2013 nella Tasi), doveva conteggiarsi con il metodo del pro-die.
Anche la scelta delle aliquote operata dai comuni ha finito per rendere sempre più complesso il calcolo dell’imposta. La legge ha attribuito ai comuni un’ampia libertà di differenziazione, sia per tipologia di immobile che per categoria di attività, pur dovendo rispettare i due limiti imposti dall’articolo 1, comma 677, della legge 147/213, (aliquota massima del 2,5 per mille e somma  Imu+Tasi non superiore al limite massimo Imu da legge statale al 31/12/2013). Tale eccessiva libertà ha condotto ad un enorme proliferare di aliquote ed ha spinto alcuni comuni ad una applicazione selettiva del tributo, concentrata solo su alcuni immobili. Questione la cui effettiva legittimità non è stata peraltro mai definitivamente chiarita.

Fonte: Il Sole 24 Ore
Ed. Quotidiano digitale Enti Locali & Pa
Autore: Stefano Baldoni


I CONSORZI PAGANO L'IMU

I consorzi di bonifica sono concessionari dei beni demaniali che vengono loro affidati e non meri detentori. Quindi, sono tenuti al pagamento sia dell'Ici sia dell'Imu. E non possono fruire dell'esenzione dalle imposte comunali nonostante esercitino una funzione pubblica di rilevanza costituzionale. È quanto ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza 22647 del 24 ottobre 2014.
Per la Cassazione, la relazione tra il consorzio e i beni «non può essere relegata nell'alveo della detenzione». Del resto, i contributi alle spese di esecuzione e manutenzione delle opere pubbliche sono considerati oneri reali sui fondi dei contribuenti. Il consorzio, invece, assume la qualifica di concessionario di aree demaniali, tenuto al pagamento dell'Ici e dell'Imu in base a quanto previsto dall'articolo 3 del decreto legislativo 504/1992. I giudici di legittimità chiariscono inoltre che non può essere riconosciuta l'esenzione perché l'articolo 7 dello stesso decreto non contempla i consorzi tra i beneficiari dell'agevolazione, ancorché la bonifica del territorio sia «confacente a una funzione pubblica di rilevanza costituzionale».
La norma, infatti, riconosce l'esenzione solo per gli immobili posseduti dallo stato e dagli altri enti pubblici che sono espressamente elencati, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. L'esenzione Ici per gli immobili posseduti dagli enti pubblici territoriali (regioni, province) è condizionata dalla destinazione effettiva che a questi viene data. Non è sufficiente la volontà di destinare l'immobile a finalità istituzionali: l'ente pubblico deve fornire la prova che abbia questa destinazione esclusiva.
Va ricordato che con l'introduzione dell'Imu è stato ristretto l'ambito delle esenzioni. Non possono più fruire dell'agevolazione fiscale gli immobili posseduti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura. E non è stata riproposta l'esenzione neppure per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili recuperati per essere destinati a attività assistenziali. In effetti l'articolo 9, comma 8, della disciplina sul federalismo fiscale municipale (decreto legislativo 23/2011) non richiama integralmente l'articolo 7 che elenca le tipologie di immobili esenti dal pagamento dell'Ici.

Autore: Sergio Trovato

Fonte: Italia Oggi

19 novembre 2014

TERRENI, ESENZIONI IMU SOLO SOPRA I 600 METRI

Pronto il dm. Fino a 280 metri contribuenti alla cassa il 16/12

È in dirittura d'arrivo il decreto del Mef che individuerà i comuni nei quali i terreni agricoli continueranno a non pagare l'Imu. L'esenzione piena rimarrà solo nei municipi collocati ad oltre 600 metri sul livello del mare, mentre fra 281 e 600 metri sarà limitata ai terreni posseduti da coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali. Fino a 280 metri, invece, tutti dovranno presentarsi alla cassa già il prossimo 16 dicembre, versando l'intera imposta dovuta per il 2014.

Il provvedimento, ora alla firma del ministro Pier Carlo Padoan, dà attuazione all'art. 22, comma 2, del dl 66/2014, che ha imposto di circoscrivere l'esenzione per i terreni agricoli prevista dall'art. 7, comma 1, lett. h, del dlgs 504/1992 sulla base della diversa altitudine dei comuni e diversificando quelli posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola. Dal provvedimento è atteso un maggior gettito pari a 350 milioni di euro, che saranno immediatamente recuperati al bilancio dello Stato decurtando il fondo di solidarietà dei comuni esclusi dall'ambito di applicazione dell'esenzione. Non a caso, i più allarmati (dopo i contribuenti) sono proprio i sindaci, che temono di perdere altre risorse.

Mentre, infatti, i tagli al fondo saranno automatici, le maggiori entrate tributarie rischiano di essere aleatorie, dato che si tratta di far pagare contribuenti che finora non hanno mai versato né l'Imu né l'Ici. Ricordiamo, infatti, che, in base alle regole attuali, nelle aree montane e di collina non sono soggetti ad imposta né i terreni agricoli né quelli diversi (ad esempio quelli incolti).

Finora, ha fatto fede l'elenco allegato alla circolare 9/1993. Il nuovo decreto, invece, modifica radicalmente il quadro, individuando tre diverse fasce altimetriche. In quella più alta (oltre i 600 metri), l'esenzione continuerà a essere totale: nessuno dovrà pagare e i comuni non subiranno nuovi tagli.

Nella fascia intermedia (fra 281 e 600 metri), l'esenzione sarà solo parziale, ossia limitata ai coltivatori diretti e agli iap. Fino a 280 metri, infine, l'esenzione verrà cancellata del tutto. Negli ultimi due casi, i comuni vedranno aprirsi un buco, che in teoria dovrebbe essere riempito dai versamenti dei contribuenti, che saranno chiamati a pagare già il prossimo 16 dicembre. In proposito, merita ricordare che, a causa della tardiva approvazione del decreto, per i terreni non più esenti non è stato versato alcun acconto a giugno, per cui in sede di saldo occorrerà sborsare l'importo dovuto per l'intero anno.

La base imponibile si ottiene applicando all'ammontare del reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, un moltiplicatore pari a 130, che scende a 110 per i coltivatori diretti e gli iap. A favore di questi ultimi, inoltre, è prevista una franchigia di 6 mila euro e una riduzione per scaglioni sull'eccedenza fino a 32 mila euro. Rimangono esenti i terreni a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.

Testata: Italia Oggi
Autore: Matteo Barbero

L’IFEL: «ANCHE SULL’IMU DEL 2012 ACCERTAMENTI TUTTI COMUNALI»

Le istruzioni. Valgono le regole dell’anno di competenza e non di quello in cui avviene la notifica

IL PROBLEMA. La soluzione supererebbe l’addio alla norma originaria sul gettito di categoria D ma un chiarimento legislativo eviterebbe altri rischi

L'Ifel ha pubblicato un dossier sul bilancio 2014, che approfondisce le ultime novità normative sulla fiscalità locale e affronta tra l'altro due questioni particolarmente interessanti.

La prima riguarda l'attività di recupero della quota statale Imu 2012, che i Comuni possono effettuare anche dopo l'abrogazione dell'articolo 13, comma 11 del Dl 201/2011.

Il problema è figlio della natura “dualistica” dell'Imu, che nel 2012 riservava allo Stato il 50% dell'imposta ad aliquota base (7,6 per mille), ad eccezione dell'abitazione principale e di altre fattispecie minori. Dal 2013 la riserva statale è limitata al solo gettito standard degli immobili di categoria D, ma è stata contestualmente soppressa la disposizione che consentiva ai Comuni di introitare le somme rivenienti dall'attività di recupero della quota statale 2012.

Ne deriverebbe l’impossibilità per i comuni di accertare e trattenere la quota erariale Imu 2012 (si veda Il Sole 24 Ore di lunedì scorso). L’Ifel offre però una chiave di lettura diversa, ritenendo che l’abrogazione del comma 11 «non determina effetti sull’attività di recupero dell’evasione, posto che non rileva l’anno in cui viene notificato l’atto di accertamento ma solo l’anno d’imposta oggetto di accertamento e quindi le regole vigenti in quell’anno, in base al noto principio del tempus regit actum».

La soluzione interpretativa dell’Ifel troverebbe conferma nell’orientamento giurisprudenziale che consente di sanzionare e recuperare tributi aboliti relativamente al periodo di vigenza, avendo la disposizione abrogativa portata innovativa (Cassazione 21168/08, 24991/06, 8717/03). Altrimenti si giungerebbe alla conclusione di non poter più recuperare tributi oggi abrogati, come la Tares.

L’altra questione affrontata dall’Ifel riguarda l’applicabilità all’Imu della disciplina comune Iuc prevista dai commi da 692 a 703 della legge 147/2013. Il dubbio nasce dal comma 703 il quale prevede che «l’istituzione della Iuc lascia salva la disciplina per l’applicazione dell’Imu».

Questa precisazione induce a ritenere che le norme comuni alla Iuc non siano applicabili all’Imu, ma solo alla Tasi e alla Tari: tesi implicitamente affermata dal dipartimento delle Finanze, che per l’Imu continua a fare riferimento agli articoli 11 e 14 del Dlgs 504/92 (nota Mef del 15 aprile 2014 e Dm del 26 giugno 2014). Questa interpretazione non è però condivisa dall’Ifel che propende per il criterio cronologico, ritenendo cioè prevalenti le norme più recenti, altrimenti si svuoterebbe di contenuto la disposizione istitutiva della Iuc (comma 639 della legge 147/2013), che di unico avrebbe ben poco.

Soluzione peraltro dettata anche da esigenze di uniformità e di unicità delle regole procedurali. Il problema si pone soprattutto con riferimento al funzionario responsabile, che nella Iuc ha il potere di rappresentare direttamente in giudizio il Comune, diversamente da quanto previsto per l’Ici. Ulteriori problemi si hanno poi sul piano sanzionatorio, dove si registrano differenze con riferimento alla sanzione per mancata risposta al questionario (con la Iuc sono da 100 a 500 euro, rispetto a 51-258 euro del Dlgs 504/92) ed altre di minor impatto.

Su entrambe le questioni appare comunque opportuno un chiarimento legislativo, anche per non alimentare un inutile contenzioso.

Testata: Il Sole 24 Ore
Autore: G.Deb.

IMU E TERRENI, ARRIVA LA STANGATA

Imposta sugli immobili. Pronto il decreto dell’Economia che rivede i criteri di tassazione in base all’altitudine della località. Niente pagamento solo in 1.578 Comuni (da 3.524) - Alla cassa già il 16 dicembre

GIRO DI VITE. Coltivatori diretti imprenditori agricoli «salvi» dal tributo negli enti locali sopra i 281 metri di altezza

L’esenzione Imu per i terreni è destinata a rimanere solo in 1.578 Comuni, invece dei 3.524 attuali: altri 2.568 saranno invece caratterizzati da un’esenzione parziale, limitata ai coltivatori diretti e agli imprenditori agricoli professionali. Negli altri Comuni, invece, pagheranno tutti.

Sono questi gli effetti della bozza di decreto preparata dal ministero dell’Economia per rivedere la disciplina Imu sui terreni, che oggi esclude dall’imposta tutti i proprietari di beni che si trovano nelle zone classificate come «montane» dall’Istat. Effetti che si sentiranno già quest’anno, perché i contribuenti che perderanno il bonus dovranno pagare entro il 16 dicembre l’Imu relativa a tutto l’anno: un bel problema per i proprietari, ma anche per i Comuni che si vedranno tagliare il fondo di solidarietà in cambio di nuovo gettito tutto da recuperare.

Al decreto il ministero ha lavorato da tempo, e ora il testo è pronto per la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» e quindi per l’entrata in vigore. La mossa, peraltro, è in ritardo (il termine, ordinatorio, era fissato dalla legge al 22 settembre scorso) ed è sempre più urgente per le casse dello Stato, perché dalla sua attuazione dipende l’incasso di una somma «non inferiore a 350 milioni di euro» già messi a bilancio dal decreto di aprile sul «bonus Irpef». Proprio da lì (articolo 22, comma 2 del Dl 66/2014) nasce tutta la questione: nella articolata ricerca delle coperture per il bonus da 80 euro, il Governo ha pensato di recuperare appunto 350 milioni dalla revisione delle regole Imu sui terreni, che oggi in pratica escludono dal pagamento mezza Italia.

Per attuare questa previsione, il provvedimento preparato dall’Economia distingue i Comuni in tre fasce, sulla base della loro altitudine misurata al centro del territorio comunale e certificata dall’Istat: l’esenzione totale per i terreni, secondo questa previsione, sarebbe destinata a rimanere in vigore solo nei Comuni con altitudine superiore ai 600 metri, il bonus sarebbe invece limitato a coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali nei Comuni con altitudine compresa fra 281 e 600 metri, mentre fuori da questi casi tutti i proprietari sarebbero chiamati a pagare l’imposta.

La regola modifica drasticamente il quadro attuale, che contempla Comuni «interamente montani» (tutti esenti), Comuni «parzialmente montani» (con terreni esclusi dall’Imu solo nelle zone considerate montane) ed enti «non montani».

Qualche esempio può aiutare a capire gli effetti: tra i Comuni «parzialmente montani» destinati a perdere completamente l’esenzione si incontrano per esempio Roma, Palermo, Bologna, Messina e Trieste dove parte del territorio comunale è oggi classificata come montana e quindi ha finora garantito l’esclusione dall’Imu dei terreni. Trento, Foligno, Carbonia e altri 567 Comuni, oggi etichettati come «interamente montani» dall’Istat, registrano un’altitudine al centro inferiore ai 281 metri, e quindi i loro terreni rientreranno nell’ambito di applicazione dell’Imu.

Per far partire questo cambio di regole, come detto, manca ormai solo la pubblicazione del decreto sulla «Gazzetta», indispensabile per far quadrare i conti del bilancio statale. I tempi, però, sono davvero strettissimi, perché alla scadenza dei termini per il saldo Imu mancano ormai solo 19 giorni lavorativi: la concreta attuazione della norma, insomma, rappresenterebbe l’ennesima deroga plateale allo Statuto del contribuente.

Testata: Il Sole 24 Ore
Autore: Gianni Trovati

CASA, RISCHIO NUOVO SALASSO CON LA LOCAL TAX

Accorpando Tasi e Imu vantaggi solo per alloggi di valore bassissimo

L'accordo con i sindaci sulla nuova local tax, il mega tributo da 31 miliardi che accorperà Tasi, Imu, Tosap sull'occupazione di spazio pubblico e imposta sulle affissioni c'è già: niente imposta per i proprietari di abitazioni dal valore catastale modesto, intorno ai 300 euro. Gli altri possono cominciare a preoccuparsi. Le aliquote varieranno dal 2,5 al 5 per mille, con una detrazione fissa di 100 euro sulla prima casa.

Più di quanto il Fisco chiede oggi per le abitazioni principali, con l'aliquota Tasi tra l'1 e il 2,5 per mille (e licenza di salire fino al 3,3 per finanziare le detrazioni). La detrazione fissa esenta le abitazioni di minor valore, ma via via che la rendita catastale aumenta il rischio stangata è dietro l'angolo.

Gli aumenti assicurati. Ci si può consolare ricordando che senza il nuovo tributo la Tasi il prossimo anno sarebbe potuta lievitare fino al 6 per mille. Senza detrazioni. Sonni ancora meno tranquilli dormiranno i proprietari di seconde case e i negozianti. Per tutti gli immobili diversi dall'abitazione principale e per i negozi infatti l'aumento è assicurato: l'aliquota passa dall'attuale forchetta 8,610,6 per mille a quella nuova, tra l'8,5 e il 12. E dalle seconde case è atteso un maggior gettito di oltre 600 milioni. Se non altro, sarà più facile versare l'imposta.

I proprietari di prima casa non dovranno impazzire a distinguere e calcolare Tasi sull'abitazione vera e propria e Imu su box, cantine e terrazze. Gli inquilini saranno esentati dal pagare la loro quota di Tasi, mentre per la Tari (rifiuti) continuerà ad arrivare un bollettino ad hoc: impossibile inglobarla nella local tax.

Grosse novità per capannoni industriali, alberghi e centri commerciali. Per questi il nuovo tributo unico passa dallo Stato ai Comuni, che vedranno statalizzata la loro addizionale Irpef, lievitata di oltre il 24% negli ultimi 5 anni. Imprese, si cambia Ma quel che interessa maggiormente le imprese è il cambio della deducibilità: oggi è possibile dedurre il 20% dell'Imu e il 100% della Tasi. Con la local tax la deducibilità passa al 30%. Dove la componente Tasi era maggiore la nuova imposta potrebbe risultare più cara.

Il nuovo super-tributo locale dovrebbe entrare in vigore nella seconda metà del 2015, per arrivare nel 2016 al miracolo dei bollettini pre-compilati e consegnati a casa. «Dobbiamo ancora completare le simulazioni e studiare come compensare i Comuni che perderanno gettito dallo scambio tassa sui capannoni-addizionale Irpef», spiega il sottosegretario all'Economia Pierpaolo Baretta.

L'emendamento alla legge di stabilità arriverà a dicembre. Il problema sono i sindaci con le addizionali già al massimo e pochi capannoni, che dovranno ricorrere a un vero salasso sulla casa per compensare il mancato gettito. Si studia un fondo di perequazione per scongiurare questo rischio.

Le simulazioni. La prime simulazioni effettuate per La Stampa dalla Uil Servizio politiche territoriali, dicono che il nuovo mega-tributo locale esenterà il 21% delle prime case, più o meno 4 milioni di abitazioni, che oggi pagano tra i 100 e i 200 euro. Un beneficio del quale godrà chi vive nei Comuni che fisseranno al minimo l'aliquota, ossia al 2,5 per mille. In caso di aliquota portata al massimo (5 per mille) la musica cambia. Già a 200 euro di rendita catastale, un monolocale, si verserebbero 68 euro, più del doppio di oggi.

A quota 450 euro, pari a un appartamento di classe economica, ma di circa 80 metri quadri, anche con la local tax al minimo si verserebbero 89 euro contro i 76 dovuti oggi. E un'abitazione nella classe A2 pagherà con il nuovo tributo 215 euro in caso sempre di aliquota minima del 2,5 per mille, contro i 126 dovuti con la Tasi. Va ancora peggio per una abitazione con rendita catastale di mille euro, corrispondente a un appartamento sempre in A2 di una novantina di metri quadri. L'imposta praticamente raddoppia: da 168 a 320 euro.

Ma la stangata è servita soprattutto per le seconde case. Un appartamentino con rendita catastale di soli 200 euro con Imu e Tasi al minimo oggi paga infatti 255 euro, con il maxi-tributo locale 356. E con le aliquota massime si passa da un prelievo di 286 euro ai 403 della local tax. «La Uil- commenta il segretario confederale Guglielmo Loy - è favorevole al superamento delle addizionali comunali Irpef, come lo è ad una tassa veramente federale. Però diciamo basta ai tagli dei trasferimenti ai Comuni che si trasformano in minori servizi o più tasse locali».

Testata: La Stampa
Autore: Paolo Russo

RIFORMA DEL CATASTO TRA INCOGNITE E OPPORTUNITÀ

Coi nuovi estimi in molti quartieri ex popolari si pagherà di più

Riforma del Catasto al via. Il processo coinvolgerà oltre 62 milioni di immobili in tutta Italia ma in un periodo molto ampio di tempo compreso tra i 3 fino ai 5 anni. La riforma, che è attesa da decenni, cambierà radicalmente il metodo con cui viene calcolato il valore catastale dei fabbricati e comporterà un aumento del valore di alcuni immobili fino al 180%.

A temere sono soprattutto quegli edifici inseriti in quartieri di pregio che però non sono riconosciuti come tali da un Catasto rimasto indietro di decenni. È il classico caso di alcuni quartieri che da popolari sono diventati "nobili" come i Navigli a Milano. Anche le costruzioni ampie e recenti potrebbero risentire della novità in arrivo. Ci sono rischi ma anche opportunità.

Se da una parte è concreto il rischio, per alcuni, di una stangata fiscale, allo stesso tempo, le sorprese potrebbero essere pure positive per alcune città (Genova per esempio) che conta un gran numero di immobili che sono classificati come di pregio ma che di fatto non lo sono più.

Quanto peserà la riforma per ogni singolo immobile è ancora troppo presto per dirlo. Dati i criteri generali, con la legge delega che sarà sviluppata dal governo, saranno poi le commissione locali, 103 in Italia, a comporre l'algoritmo che scriverà il futuro degli edifici.

Composta da 6 membri, 3 dei quali scelti da esperti di Ordini professionali di tecnici esperti in materia (ingegneri, geometri, commercialisti), sarà questo organismo a decidere. Nello specifico, verrà determinato un valore di mercato al metro quadro, che poi verrà moltiplicato per la superficie di ciascun immobile. Ci saranno alcuni parametri in primo piano: partendo dalle quotazioni rilevate nell'osservatorio sul mercato immobiliare dell'Agenzia delle Entrate, i calcoli terranno conto di altri fattori come la zona di ubicazione dei fabbricati o il loro stato di conservazione, le finiture e il piano in cui si trova l'immobile.

«Attraverso le nuove rendite catastali, a livello fiscale, lo Stato potrà attuare un'autentica perequazione a gettito invariato, ponendo fine a distorsioni e incongruenze realizzando così un catasto moderno in linea con gli standard dei più efficienti sistemi catastali vigenti a livello internazionale» dice Giampiero Bambagioni responsabile scientifico di Tecnoborsa. Per l'esperto, la revisione del sistema, se ben attuata, consentirà di attribuire a ciascuna unità immobiliare il valore patrimoniale e la rendita effettiva.

L'aggiornamento dei valori e dei dati e delle caratteristiche degli immobili potrebbero, tra l'altro, favorire una maggiore efficienza e trasparenza del mercato medesimo, incidendo anche sulla definizione delle stime immobiliari, incluse quelle degli immobili a garanzia di mutui. È ancora prematuro determinare l'impatto della riforma del catasto sul mercato: la nuova metodologia di calcolo per il valore patrimoniale e per la rendita castale potrà portare ad un avvicinamento tra il valore utilizzato come base di calcolo per le imposte e il reale valore di mercato degli immobili» dice Davide Baldelli, manager di Patrigest (società del gruppo Gabetti).

Testata: La Stampa
Autore: Sandra Riccio

COMPENSAZIONI SEMPRE

LEGGE DI STABILITÀ/ Governo favorevole a un emendamento M5S - Lo scambio tasse-crediti p.a. va oltre il 2014

Arriva una boccata d'ossigeno per le imprese. La possibilità di compensare i debiti fiscali con i mancati pagamenti della p.a. diventerà strutturale. Ad oggi, infatti, questa possibilità era prevista solo fino al 31 dicembre 2014, a seguito di un decreto del ministero dello sviluppo economico, atteso in aprile, ma che ha visto la luce solo all'inizio di ottobre (si veda ItaliaOggi dell'11/10/2014). Va verso la concretizzazione, quindi, uno dei contenuti cardine della legge delega fiscale (23/2014) che tra i suoi capisaldi annovera la volontà di dare vita a dei meccanismi strutturali di compensazione.

La misura dovrebbe trovare posto nella legge di Stabilità 2015 vista l'intenzione del governo, confermata anche dal relatore Mauro Guerra (Pd), di fare proprio un emendamento del Movimento 5 Stelle che agli inizi di settembre aveva sollecitato il ministro dello sviluppo economico Federica Guidi a scongiurare la prospettiva che la possibilità di compensare tasse e crediti p.a. cessasse a fine anno.

I lavori sulla manovra sono entrati nel vivo in commissione bilancio della camera che ieri ha iniziato a votare i 651 emendamenti sopravvissuti con l'obiettivo di trasmettere il testo all'aula di Montecitorio entro il 27 novembre (l'approdo al senato è invece previsto per l'8 dicembre). La quinta commissione ha dato il via libera a numerose proposte di modifica anche se il clou dei lavori sarà oggi quando si discuteranno temi caldi come il bonus di 80 euro (che il sottosegretario all'economia Pier Paolo Baretta ha però già definito intoccabile) e l'anticipo del tfr in busta paga.

Beni del ministero della difesa all'asta a prezzi scontati. Il prezzo di vendita degli «immobili liberi di pregio» (caserme, ma anche semplici alloggi) nella disponibilità del ministero della difesa dovrà essere ridotto per scongiurare la prospettiva che i bandi vadano deserti. Con un emendamento alla manovra, presentato ieri in commissione bilancio, il governo pone al ministero guidato da Roberta Pinotti precisi obiettivi di gettito: 220 milioni per il 2015 e 100 milioni all'anno dal 2016.

E per incentivare le dismissioni, arriva l'indicazione ad abbassare i prezzi e il dimezzamento dei tempi per le aste: i potenziali acquirenti avranno 30 giorni di tempo (e non più 60) per visionare gli immobili e l'accettazione del prezzo di vendita (con pagamento della caparra) dovrà avvenire entro 15 giorni (e non 30), mentre il rogito dovrà essere concluso entro 60 giorni (prima 120).

Un mese in più per la tesoreria unica delle Cciaa. Il governo ha anche deciso di dare un mese in più alle camere di commercio per passare al regime di tesoreria unica. La dead line per versare a Bankitalia le disponibilità liquide depositate presso le banche (escluse le risorse originate da mutui, prestiti e ogni altra forma di indebitamento non assistita da contributi statali o di altre p.a.) slitta dal 1° gennaio al 1° febbraio 2015. Il rinvio di un mese, si legge nella relazione tecnica che accompagna la proposta, consentirà ai tesorieri delle Camere di commercio di «assumere le necessarie misure organizzative» e comporterà «un peggioramento dei saldi per 1,4 mln esclusivamente nel 2015».

Testata: Italia Oggi

Autore: Beatrice Migliorini e Francesco Cerisano

LA PERDITA DELL’AGEVOLAZIONE NON AMMETTE LA SECONDA CHANCE

Il contribuente che incorre nella decadenza da un beneficio fiscale, non può ottenere il riconoscimento di altri “sconti” richiesti in via subordinata nel medesimo atto.

L’impresa che non ha coltivato i terreni acquistati con l’agevolazione per la piccola proprietà contadina, perdendo il relativo trattamento di favore, non può invocare, in sostituzione, la fruizione degli ulteriori benefici previsti per gli imprenditori agricoli professionali.
È la conclusione della risoluzione n. 100/E del 17 novembre 2014.

Il parere fornito dall'Agenzia delle Entrate si basa sulle diverse pronunce emesse dalla giurisprudenza di legittimità in tema di decadenza dalle agevolazioni fiscali.
Secondo la Corte di cassazione, infatti, i poteri di accertamento e valutazione del tributo si esauriscono nel momento in cui l’atto è sottoposto a tassazione. Di conseguenza, “la decadenza dall'agevolazione concessa in quel momento preclude qualsiasi altro accertamento sulla base di altri presupposti normativi o di fatto” (sentenza 8409/2013).
Anche in un’altra circostanza, la Cassazione, fondando le proprie conclusioni sul principio che i poteri di accertamento del tributo si esauriscono nel momento in cui l’atto è sottoposto a tassazione, rileva il corretto operato dell’Amministrazione fiscale e il legittimo assoggettamento dell’atto a imposizione ordinaria, “non potendo esser riconosciute altre agevolazioni per le quali occorressero differenti condizioni di fatto o di diritto ed anche se dette altre agevolazioni fossero state richieste al momento della registrazione” (sentenza 1259/2014).

Sulla base di tale orientamento, l’Agenzia ritiene superate le conclusioni fornite con la circolare 32/2007, nel punto in cui viene affermato che il regime agevolativo per gli imprenditori agricoli professionali (Iap) può essere “riconosciuto se richiesto in via subordinata nell'atto di acquisto….”.

Nel caso oggetto della risoluzione in esame, dunque, l’impresa agricola, decaduta dalle agevolazioni previste a favore della piccola proprietà contadina, non potrà fruire né del regime di favore per gli imprenditori agricoli professionali iscritti nella gestione previdenziale e assistenziale (imposte di registro e ipotecaria in misura fissa, catastale all’1% ed esenzione dall'imposta di bollo) né di quello previsto per gli Iap (imposta di registro all’8% ed ipotecaria e catastale, rispettivamente, al 2 e all’1%).
È legittimo, quindi, l’avviso di liquidazione per il recupero dell’imposta di registro ad aliquota ordinaria (15%) e di quella ipotecaria con aliquota del 2 per cento.
Autore: Patrizia De Juliis
Fonte: FiscoOggi


IL NO ALL’AUTOTUTELA È IMPUGNABILE SOLTANTO PER I VIZI DI LEGITTIMITÀ

Non è possibile contestare l’avviso di accertamento divenuto definitivo, ma va prospettata l’esistenza di un interesse generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto

Contro il diniego dell’Amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili d’illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa erariale.
A ribadirlo, la Corte di cassazione con l’ordinanza 23628 del 5 novembre 2014.

Vicenda processuale
Il contenzioso origina dall’impugnazione di un diniego di autotutela emesso dall’Amministrazione finanziaria su istanza di un contribuente che lamentava l’illegittimità dell’avviso di liquidazione, con cui gli era stata revocata l’agevolazione “prima casa”.
In particolare, il contribuente aveva prospettato all’ufficio l’opportunità di uno sgravio, visto che la parte acquirente aveva provveduto al pagamento delle somme, oggetto di rettifica.
Interessata della questione, la Ctr ha declarato l’inammissibilità del ricorso.
Di poi, il ricorso per cassazione del contribuente, articolato in due motivi: violazione del principio della doppia imposizione, posto che il pagamento dell’importo rettificato da parte della società alienante avrebbe determinato una duplicazione d’imposta, e violazione dell’articolo 19 del Dlgs 546/1992.

Decisione
La Corte ha rigettato il ricorso, ricordando il principio di diritto, fortemente consolidato in ambito giurisprudenziale, secondo cui, in tema di autotutela, è possibile adire il giudice tributario soltanto per dedurre eventuali profili d’illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa.
In particolare, si legge nella sentenza, “il contribuente che richiede all’Amministrazione finanziaria di ritirare in via di autotutela un avviso di accertamento divenuto definitivo, non può limitarsi a dedurre eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione deve ritenersi definitivamente preclusa, ma deve prospettare l’esistenza di un interesse generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto”.

Osservazioni
La decisione in rassegna si inserisce nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale, per altro maggioritario, propenso ad ammettere l’impugnabilità del diniego di autotutela per i soli vizi di legittimità del rifiuto, senza possibilità alcuna, per il giudice, di sindacare la fondatezza della pretesa.

A tal proposito, la Corte di cassazione ha riconosciuto da sempre “la giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il rifiuto espresso o tacito della Amministrazione a procedere ad autotutela”, considerato che alla stessa sono attribuiti, ai sensi dell’articolo 2 del Dlgs 546/1992, tutti i giudizi aventi a oggetto “i tributi di ogni genere e specie” (cfr Cassazione, sezioni unite, 16776/2005 – tale orientamento è stato confermato dalle sezioni con le successive sentenze 2870/2009, 3698/2009, 7388/2007 e 9669/2009, nonché dalla sezione tributaria con sentenza 15451/2010 e ordinanza 22866/2011).

Dopo aver statuito sulla giurisdizione, la giurisprudenza di legittimità ha delimitato, altresì, l’oggetto del giudizio, stabilendo che “avverso l’atto con il quale l’Amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale” (cfr Cassazione 11457/2010 e 18807/2010).

Il contribuente non può presentare ricorso avverso un diniego dell’ufficio che sia meramente confermativo della pretesa tributaria, al solo fine di contestare la pretesa erariale.
Difatti, il sindacato della Commissione tributaria non può estendersi fino alla valutazione della fondatezza dell’originaria pretesa tributaria, essendo precluso al giudice di procedere all’annullamento degli atti non impugnati ritualmente (cfr Cassazione 1219/2011 e 12930/2013).
Tale conclusione si giustifica in ragione sia della natura discrezionale propria dell’esercizio dell’autotutela sia del principio della certezza dei rapporti giuridici, che non consente di rimettere in discussione davanti al giudice la pretesa tributaria contenuta in atti definitivi (cfr Cassazione 11127/2012).

In sede giudiziale può effettuarsi esclusivamente un sindacato sul corretto esercizio del potere dell’Amministrazione, “nell’ambito della legittimità dell’operato … e non del merito, non essendo ammissibile la sostituzione del giudice tributario all’Amministrazione nell’adozione di un atto di autotutela” (cfr Cassazione 26313/2010 e, in tal senso, anche Cassazione 10020/2012, 7687/2012 e 15451/2010).

In pratica, l’impugnabilità dell’atto di diniego dell’autotutela è ammissibile solo per far valere vizi propri del medesimo atto (ad esempio, perché sottoscritto da soggetto non legittimato o perché fondato su motivi contraddittori) oppure perché fondato su una motivazione nuova o integrativa rispetto a quella contenuta nell’atto contestato. Diversamente, si eluderebbe il termine perentorio di 60 giorni per la proposizione del ricorso, relativamente breve, in quanto l’ordinamento ha voluto favorire comunque il consolidamento e la stabilità di situazioni giuridiche soggettive, anche a prescindere dall’eventuale illegittimità del relativo atto e presupposto procedimento.
Autore: Carmen Miglino

Fonte: FiscoOggi

10 novembre 2014

IL COMUNE ACCERTA, LO STATO INCASSA

Tributi. La destinazione della quota erariale per l’imposta municipale sugli immobili diversi dall’abitazione principale

Nelle varie correzioni è saltata la norma per assegnare all’ente tutto il gettito 2012

I Comuni che si stanno cimentando con i primi accertamenti Imu relativi all’anno d’imposta 2012 si sono imbattuti in una spiacevole sorpresa: parte del gettito recuperato potrebbe essere di competenza dello Stato. È l’effetto dell’articolo 1, comma 380, della legge 228 del 2012, che abrogando l’articolo 13, comma 11, del Dl 201/2011 ha fatto decadere la disposizione che riconosceva ai Comuni la spettanza di tutte le somme accertate, compresa la quota Imu che in autoliquidazione il contribuente avrebbe dovuto versare allo Stato per alcune fattispecie immobiliari.
Per mettere a fuoco la questione occorre ricostruire il ginepraio normativo che si è venuto a creare a seguito delle reiterate scorribande del legislatore.
Il Dl 201/2011, all’articolo 13, comma 11, aveva originariamente riservato allo Stato una quota dell’Imu calcolata applicando l’aliquota del 3,8 per mille alla base imponibile di determinati immobili. Restava infatti di esclusiva competenza comunale l’imposta relativa alle abitazioni principali (e relative pertinenze) e ai fabbricati rurali strumentali. Successivamente, con il Dl 16/2012 è venuta meno (sempre a decorrere dal primo gennaio 2012) la compartecipazione dello Stato sugli immobili di proprietà dei Comuni posti nel loro territorio e sugli alloggi assegnati dagli ex Iacp.
In definitiva, nel 2012, ad eccezione delle abitazioni principali (comprese quelle ad esse assimilate con regolamento comunale), dei fabbricati strumentali alle attività agricole, dei beni comunali e delle case popolari, su tutti gli altri immobili i contribuenti avrebbero dovuto corrispondere allo Stato una quota dell’Imu. L’articolo 13, comma 11, del Dl 201/2011 precisava però che le attività di accertamento e riscossione dell’imposta di pertinenza erariale competevano ai Comuni ai quali sarebbero spettati anche le maggiori imposte recuperate, gli interessi e le sanzioni.
Su questo assetto normativo è quindi intervenuta la legge 228 del 2012 che, a far tempo dall’anno d’imposta 2013, ha lasciato ai sindaci tutto il gettito dell’Imu riservandosi solo l’imposta sui fabbricati ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D, calcolata ad aliquota standard dello 0,76 per cento. La stessa legge, però, ha improvvidamente abrogato l’intero comma 11 dell’articolo 13 del Dl 201 del 2012. Di conseguenza oggi non vi è più una disposizione che con riguardo all’anno d’imposta 2012 individui il soggetto titolare dell’attività di accertamento sulle quote erariali e il destinatario delle somme contestate al contribuente.
Rispetto alla prima questione è da ritenere che, pure in assenza di una specifica disposizione, l’attività di accertamento sia comunque di esclusiva competenza municipale, trattandosi di un tributo che non perde la sua natura “locale” ancorché una parte dello stesso andasse versata dai contribuenti direttamente allo Stato. A diversa conclusione si deve invece pervenire rispetto alla quota erariale, che non pare possa essere trattenuta dai Comuni in assenza di una specifica previsione normativa.
Non a caso la stessa legge 228 del 2012, nello stabilire che dal 2013 allo Stato compete solo il gettito Imu di base sui fabbricati di categoria catastale D versato spontaneamente dai contribuenti, ha dovuto espressamente disporre che ai Comuni spettano le somme derivanti dalle attività di accertamento e riscossione da loro condotte su detti immobili. A questo punto la parola dovrebbe tornare al legislatore per porre rimedio a quello che, con ogni probabilità, è stato un “incidente di percorso”.

Testata: Il Sole 24 Ore
Autore: Di Maurizio Bonazzi

8 novembre 2014

SEMPLIFICAZIONI FISCALI: NUOVI TERMINI PER L'ACCERTAMENTO DELLE SOCIETÀ ESTINTE

L'art. 28, comma 4, dello schema di decreto sulle semplificazioni fiscali prevede che: “ai soli fini della liquidazioneaccertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l'estinzione della società di cui all'articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”.
La norma è tesa a coordinare la disciplina civilistica sulla cancellazione delle società di capitali (così come novellata dalla riforma del diritto societario attuata con il D.Lgs. n. 6/2003), con le norme dettate in materia di liquidazione, accertamento e riscossione, al fine di evitare che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate da condotte elusive (è questo il caso, ad esempio, delle società estinte senza aver assolto ai propri obblighi di versamento ai fini IVA).
Al riguardo, è ampiamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. sentenze n. 4060, n. 4061 e n. 4062 del 2010), la natura costitutiva della cancellazione delle società dal Registro delle imprese, con il conseguente effetto dell'estinzione della società di capitali, a prescindere dall'esistenza di crediti o debiti insoddisfatti o rapporti tributari pendenti.
Tale impostazione fa sì che, nell'ambito delle procedure di liquidazione, l'Amministrazione finanziaria null'altro può avere a pretende sui singoli soci se non quanto ricevuto sulla base del bilancio finale di liquidazione.
L'intervento prende le mosse dalla consapevolezza di come l'attuale quadro normativo, pur essendo effettivamente funzionale a garantire in tempi brevi la cancellazione e la realizzazione dei conseguenti effetti civilistici, renda di difficile realizzazione i controlli e le azioni di recupero, essendo queste ultime spesso regolate da disposizioni che ne prevedono l'avvio in tempi successivi a quelli previsti dall'art. 2495 per l'estinzione della società.
In quest'ottica, il periodo di 5 anni è stato individuato con riferimento ai termini di cui agli articoli 43, comma 2, D.P.R. n. 600/1973 e 57, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, rispettivamente previsti per l'accertamento nelle ipotesi di omessa dichiarazione.
Se da un lato, tuttavia, la norma consente al Fisco di disporre di un maggior tempo per il recupero delle proprie pretese, dall'altro, è evidente come la stessa contribuisca ad accrescere il clima di incertezza che caratterizza l'iter conclusivo della procedura. Non si comprende, ad esempio, come individuare il luogo di notifica di un eventuale avviso di accertamento, posto che la società, dopo la cancellazione, non ha più sedi.
Inoltre, la norma nulla dispone in relazione alla decorrenza delle nuove disposizioni, con il conseguente rischio di “pericolose” interpretazioni a favore dell'applicabilità delle stesse anche nei confronti delle società già cancellate alla data di entrata in vigore del decreto.
Responsabilità estesa per i liquidatori di soggetti IRES
Inoltre, con una modifica dell'art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, lo schema di decreto modifica il regime di responsabilità di liquidatori e soci di soggetti IRES.
La norma, in particolare, prevede che i liquidatori che non adempiono all'obbligo di saldare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo di liquidazione e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte, salvo dimostrino di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all'assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di aver soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Tale responsabilità - precisa la norma - è commisurata all'importo dei crediti d'imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti.
Tale impostazione capovolge, pertanto, nella sostanza il quadro attuale, in base al quale incombe sull'Amministrazione l'onere di accertare i presupposti relativi alla responsabilità del liquidatore.
Inoltre, con le nuove disposizioni viene meno la limitazione all'applicazione dell'art. 36, D.P.R. n. 602/1973 alle sole imposte sul reddito, con conseguente estensione della responsabilità a tutti i tributi (in primis IVA e IRAP) e ulteriori somme iscrivibili a ruolo in base alle disposizioni del D.P.R. n. 602/1973.
Con riferimento alle novità che vanno a incidere sul regime di responsabilità dei soci, si ricorda che l'art. 36 citato prevede che i soci o associati, che abbiano ricevuto - nel corso degli ultimi due periodi d'imposta antecedenti la messa in liquidazione - denaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o dal liquidatore nel corso della fase di liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute nei limiti del valore dei beni stessi.

La novità introdotta dal decreto consiste nella previsione che il valore del denaro e dei beni sociali ricevuti in assegnazione (con riguardo al patrimonio della società all'inizio della liquidazione), si presume, salvo prova contraria, proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio o associato.
 
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