Allacciandoci ai precedenti articoli sull'autotutela
comprendiamo come è sicuramente frequente e comunque possibile che l’Amministrazione,
in corso di giudizio o nell'espletamento dell’ordinaria attività amministrativa
si trovi di fronte all'esigenza di dover modificare e pertanto annullare o
rettificare taluni fra gli atti emessi dallo stesso Ufficio.
Capita invero che si riscontri l’esigenza di dover diminuire
la pretesa tributaria inizialmente imputata con un generico avviso di
accertamento, così, nella piena facoltà di intervenire in autotutela ad
esempio, l’ufficio apporti all'atto originario una revoca parziale. Revoca che
ai fatti corrisponde in una mera modifica dell’importo dunque, giammai degli
effetti dell'avviso emesso.
A tal proposito rammentiamo che la rettifica di un atto
amministrativo consiste nell'eliminazione di errori ostativi o materiali in cui
l’amministrazione sia incappata, di natura non invalidante ma che diano luogo a
mere irregolarità. Di conseguenza il provvedimento in rettifica è espressione
di un ulteriore atto di contenuto identico al precedente ma corretto dai suoi
vizi.
Le azioni quindi si sostanziano in due momenti, il ritiro dell’atto
impositivo originario e la successiva emanazione dell'atto con le modifiche
apportate, ma identico nel contenuto.
Tale facoltà di rettifica è ravvisabile nel potere di
sostituzione, meglio conosciuto come autotutela sostitutiva, che viene a
compiersi ogniqualvolta l’atto originario non deve necessariamente essere
annullato, ma semplicemente “rimpiazzato” da altro corrispondente. L’avviso di accertamento
emesso in sostituzione, viziato da errore materiale evidente, non costituisce
dunque espressione del potere di autotutela integrativa, ed è esperibile anche
in assenza di sopravvenuti nuovi elementi che danno facoltà all'Ufficio di
muovere le proprie tutele.
Appare pertanto più che condivisibile l’orientamento
giurisprudenziale che viene confermato dalla Suprema Corte con sentenza 17516
del 14 Luglio scorso, andando ad ingrossare il già ampio bacino di sentenza aderenti
allo stesso principio (cass. civ. 11699/2016, cass. civ. 22019/2014, cass. civ.
21567/05, cass. civ. 12814/2000) per il quale, la modificazione in diminuzione
della pretesa originaria - proprio perché non mira ad identificare una pretesa
tributaria "nuova" rispetto a quella precedente - si risolve in una
mera riduzione e, quindi, in una revoca parziale del relativo avviso di
accertamento e non richiede necessariamente la formalizzazione in atto
impositivo integralmente sostitutivo del precedente. Ne consegue che è errato
ritenere che l'emanazione degli avvisi in rettifica possa determinare la
caducazione degli avvisi di accertamento originari.
Anche se viene a dichiararsi che non è necessario la
formalizzazione di atto sostitutivo non dobbiamo farci trarre in inganno, infatti,
quello che si sostiene anzitutto è che l'avviso di accertamento successivamente
notificato rappresenta espressione del potere di autotutela e non di
integrazione o modifica in aumento, ex art.43 comma 3 DPR 600/1973
dell'Amministrazione finanziaria, implicante l'eliminazione di un precedente
atto, illegittimo, e la sua contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento.
Pertanto, l’atto in rettifica non annulla il precedente ne modifica
o integra alcuna parte, andando così a modificarne gli effetti. L’atto in
rettifica è copia esatta, riproduzione fedele di quello che fu, pertanto non
smette di essere efficace o viene disconosciuto dall'Ufficio, al contrario esso
ha solo rettificato, dunque revocato una parte di esso. In tal caso, la diminuzione della pretesa tributaria equivale all'errore materiale, non invalidante, in cui l'Ufficio pare essere incappato.
Potremmo concludere che l’atto rettificato in realtà si sostanzia nello
stesso atto originario, non se ne sostituisce nuovo all'originario, ne viene
solo parzialmente revocata una parte. Parte che rimane elemento dell'avviso precedente.