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26 ottobre 2016

ABBUONO EX LEGE PER I TRIBUTI COMUNALI: ATTENZIONE ALLE DISPARITA'

E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto n. 193 del 2016 “Disposizioni urgenti in materia fiscale e per il finanziamento di esigenze indifferibili” con il quale si concretizza l’addio a Equitalia, e si cerca di regolarizzare la rottamazione o definizione agevolata delle cartelle di pagamento.
Si nota però che se l'articolo 6 del decreto prevede espressamente che per le sanzioni amministrative per violazione al Codice della strada la definizione agevolata si applica solo per la parte relativa agli interessi, compresa la maggiorazione di un decimo per ogni semestre prevista dall'articolo 27 della legge 689/1981, per le altre entrate comunali nulla si dice.
Visto però che la definizione si applica a tutti i ruoli affidati ad Equitalia dal 2000 al 2015, è naturale conclusione includere anche i ruoli relativi ai tributi comunali. 
Quindi, un accertamento Ici, Imu, Tarsu, o comunque riferito ai tributi locali in genere, con applicazione della sanzione per omessa denuncia, considerato l’abbuono ex lege delle sanzioni, sarà nei fatti dimezzato considerando che la sanzione minima in questo caso è pari al 100% dell'imposta evasa.

Il decreto, a discapito dei Comuni, non prevede compensazioni per gli Enti e rimane da verificare l'impatto sui bilanci comunali, almeno per quei Comuni che hanno mantenuto accertamenti contabili sui vecchi ruoli.
Ora sembra necessario far emergere un’ampia disparità di trattamento nei confronti dei Comuni che riscuotono coattivamente tramite ingiunzione di pagamento, infatti la definizione agevolata scritta nel decreto non è applicabile anche all'ingiunzione, e non è presente alcuna disposizione che dia questa facoltà ai Comuni. Anzi, il testo rincara lo dose, specificando come sia preclusa ai Comuni la possibilità di prevedere per via regolamentare un intervento simile, perché le sanzioni sono un accessorio dell'imposta e in quanto tali sono indisponibili al pari dell'imposta stessa, salvo deroghe normative.
Né sembra poter essere utilizzabile l'articolo 13 della legge 289/2002, che permetterebbe in astratto ai Comuni di disciplinare autonomamente i propri condoni, perché si tratta di norma che per giurisprudenza consolidata della Cassazione, ma anche della Corte dei Conti, è applicabile solo per i tributi dovuti alla data di entrata in vigore della legge 289. Dobbiamo però puntualizzare che questa sembra essere materia ancora non del tutto pacifica, difatti, lo stesso Ministro dell’economia pare abbia un orientamento differente che quindi non sposi appieno il filone normativo appena emanato.

Bocciata quindi la possibilità del condono comunale, i contribuenti che hanno ricevuto l'ingiunzione di pagamento dal Comune o anche dal concessionario privato della riscossione non avranno la possibilità di vedersi abbonate le sanzioni. Questo pone ovviamente seri problemi di legittimità costituzionale della normativa, perché contribuenti che si trovano nella stessa situazione sarebbero trattati in modo diverso dal legislatore a seconda della modalità di riscossione coattiva scelta dal Comune. Quindi si rischierebbe di cadere in un enorme disparità di trattamento, condizione questa del tutto lontana e contraria alla filosofia cardine della Costituzione della Repubblica Italiana. 

25 ottobre 2016

DICHIARAZIONE ICI E AREE EDIFICABILI

I giudici della Suprema Corte con la sentenza n. 19877 del 5 ottobre 2016 in materia di Ici e aree fabbricabili hanno statuito che i proprietari delle aree fabbricabili sono tenuti a effettuare una nuova dichiarazione in caso di incremento del valore del cespite, in caso di omissione, a ogni singola annualità di imposta successiva deve essere applicata la sanzione. 

Se i criteri per la determinazione del valore venale delle aree fabbricabili sono basati su dati ricavabili da atti pubblici e dai listini della Camera di commercio, gli stessi sono facilmente accessibili e quindi conoscibili da chiunque ne abbia interesse.
Tutto questo in forza dell’obbligo di dichiarare le variazioni degli immobili già dichiarati, qualora incidenti sulla determinazione della imposta, permane finché non sia presentata una nuova dichiarazione e determina, per ciascun anno di imposta, una autonoma violazione.

Secondo la Corte, ogni anno il contribuente è tenuto a riesaminare il valore dell’area sulla scorta dell'andamento del mercato, della categoria e del valore dei beni a esso similari, tutto questo anche se non varia nulla nella situazione di fatto, nella sua destinazione e nel contesto ove il bene è collocato. Dobbiamo ricordare che in realtà già in passato la Corte si era espressa in tal senso, precisando che la violazione dell'obbligo di denuncia non si esaurisce con la violazione del primo termine dettato dal legislatore. In conformità al principio secondo cui, in mancanza di variazioni, la dichiarazione produce effetto anche per gli anni successivi, è ovvio che tale effetto, può verificarsi solo in presenza di una dichiarazione e non in assenza della stessa. Possiamo quindi concludere che l'obbligo di presentare la dichiarazione per gli anni successivi viene meno quando la dichiarazione sia stata presentata per un anno precedente, e sempre che non siano intervenute variazioni capaci di determinare un'imposta diversa.

Precisiamo che è il comma 5 dell'articolo 5 del Dlgs n. 504 del 1992 che detta i criteri per la determinazione del valore per le aree fabbricabili, tale valore costituisce quindi, la base imponibile dell'imposta. Altro non è che il valore venale in comune commercio al 1° gennaio dell'anno di imposizione, avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all'indice di edificabilità, alla destinazione d'uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche.

21 ottobre 2016

COMODATO IMU/TASI E NUDA PROPRIETA'

Siamo qui ad esaminare la fattispecie in cui un contribuente proprietario di un appartamento in cui vive e risiede è contestualmente proprietario nello stesso comune di altro immobile che ha concesso in comodato gratuito al figlio, il quale vi ha trasferito la residenza. Inoltre il contribuente risulta essere anche nudo proprietario di altro appartamento situato sempre nello stesso comune, sul quale la madre ne aveva l’usufrutto. Ora, in prima istanza nel calcolo dell’acconto IMU e TASI 2016, è ragionevole applicare sull’immobile ceduto in comodato al figlio, la riduzione del 50% prevista dalla Legge di Stabilità 2016. Abbiamo ritenuto possibile l’applicazione, in quanto, sembrano essere state rispettate tutte le condizioni del caso, visto che sul terzo immobile, il contribuente non ha la proprietà, bensì la nuda proprietà. La complicazione però sorge se le condizioni iniziali assumono una notevole modifica. Difatti se la madre usufruttuaria dell’immobile, nell’anno d’imposta in cui il contribuente sta usufruendo dell’agevolazione per il comodato del figlio, decede, l’usufrutto si cancella e il contribuente non è più nudo proprietario ma torna ad accentrare in se la piena titolarità dell’immobile. 
Pertanto cosa cambia ora relativamente all’IMU e alla TASI dovuta sull’immobile concesso in comodato al figlio?

La Legge di Stabilità 2016 al comma 10, lett.b), dispone, dal 2016, l’abbattimento del 50% della base imponibile IMU e TASI “per le unità immobiliari, fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, concesse in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado che le utilizzano come abitazione principale, a condizione che il contratto sia registrato e che il comodante possieda un solo immobile (abitativo) in Italia e risieda anagraficamente nonché dimori abitualmente nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in comodato; il beneficio si applica anche nel caso in cui il comodante oltre all'immobile concesso in comodato possieda nello stesso comune un altro immobile adibito a propria abitazione principale, ad eccezione delle unità abitative classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9”.
Dunque, dal tenore letterale della norma e tenendo conto anche dei successivi chiarimenti forniti dal MEF con gli opportuni documenti di prassi, l’agevolazione in esame è applicabile in soli due casi, ossia:
Prima ipotesi Il comodante (es. genitore) possiede (in tutta Italia) solo un’abitazione (non di lusso) e la concede in comodato al figlio il quale la utilizza come abitazione principale (trasferendovi dimora e residenza). Il genitore vive, invece, in affitto nello stesso comune in cui si trova l’immobile dato in comodato (il comodante deve avere residenza nello stesso comune in cui è situato l’immobile);
Seconda ipotesi Il comodante (es. genitore) possiede (in tutta l’Italia) solo un’abitazione (non di lusso) che rappresenta la sua abitazione principale. Inoltre possiede, sempre nello stesso comune un solo secondo immobile abitativo (non di lusso) che concede in comodato al figlio il quale lo utilizza come abitazione principale. L’agevolazione c’è finché c’è nuda proprietà.
Nel caso in esame, il contribuente si trova nella seguente situazione:
· è proprietario dell’immobile abitativo non di lusso (cat. A/2) che ha concesso in comodato al figlio il quale vi ha trasferito la residenza e dimora;
· è altresì proprietario nello stesso comune, della sola (sua) abitazione principale (non di lusso);
· ha registrato il contratto di comodato;
· è nudo proprietario di altro immobile abitativo su cui la madre anziana aveva l’usufrutto.
Il fatto che il contribuente era nudo proprietario di un terzo immobile abitativo (con usufruttuaria la madre), non ha precluso l’applicazione dell’agevolazione IMU/TASI sull’immobile ceduto in comodato al figlio, poiché, la disciplina IMU e TASI prevede che soggetto passivo del tributo è l’usufruttuario, per cui finché la madre era in vita (o comunque finché non è cancellato l’usufrutto), il nudo proprietario non è soggetto passivo IMU e TASI dell’immobile e di conseguenza non è considerato “proprietario” in quanto ne è spogliato fino a durata dell’usufrutto.
In altre parole, in sede di acconto, il contribuente risultava (da gennaio) proprietario solo dell’immobile (non di lusso) concesso in comodato e della sua abitazione principale (non di lusso), entrambi situati nello stesso comune e quindi poteva godere dell’agevolazione. Tuttavia, dal momento in c’è la ricongiunzione dell’usufrutto, l’agevolazione non potrà trovare più applicazione, poiché si rientra nella piena proprietà dell’altro immobile e quindi non saranno più soddisfatte le condizioni previste dal comma 10 lett. b) Legge di Stabilità2016 (il contribuente risulterà proprietario dell’immobile ceduto al figlio, dell’abitazione in cui vive e del terzo immobile su cui la madre aveva l’usufrutto ed è proprio quest’ultimo che ne precluderà l’applicazione dell’agevolazione).
In conclusione, nel caso in esame: l’agevolazione IMU/TASI del 50% troverà applicazione fino al mese in cui la madre è deceduta ed in cui, quindi, si è avuta ricongiunzione di usufrutto. A tal proposito è utile ricordare che ai fini IMU e TASI, il mese si considera per intero se il possesso si è protratto per più di 15 giorni; dopo la ricongiunzione dell’usufrutto l’agevolazione non potrà più trovare applicazione (salvo che si costituisca nuovamente usufrutto a favore di altro soggetto).

Di tutto ciò, il contribuente ne terrà conto in sede di liquidazione del saldo IMU e TASI da versarsi entro il prossimo 16/12/2016. Quindi, in sede di saldo, questi riliquiderà IMU e TASI sull’immobile ceduto in comodato al figlio, applicando l’agevolazione per i mesi in cui c’è stato possesso della madre e per i rimanenti mesi non applicherà l’agevolazione.

17 ottobre 2016

IL CONSIGLIO DI STATO BOCCIA IL "SILENZIO" DELLA PA

La Pubblica Amministrazione dinanzi ad una formale istanza ha l’obbligo di concludere il procedimento, non potendo questa rimanere inevasa, rispettando così i principi di correttezza, buon andamento e trasparenza, consentendo alle parti di difendersi in giudizio in caso di provvedimenti lesivi dei loro interessi giuridici. Questo il principio emerso dalla sentenza n. 3827/16 del Consiglio di Stato, sezione III.
In forza dell’orientamento in esame non possiamo però non citare l’articolo 2, comma 1 della Legge 241/1990 ove chiaramente si stabilisce che il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la PA ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Il comma 5, inoltre, salvi i casi di silenzio - assenso, ai quali la Legge attribuisce il valore giuridico di accoglimento della richiesta, decorso il termine di durata del procedimento, mette a disposizione del richiedente il rimedio per ottenere un provvedimento espresso. Ci si riferisce allo strumento di cui all’art. 117 codice del processo amministrativo, o il ricorso giurisdizionale avverso il silenzio – rifiuto (o silenzio – inadempimento), a seguito del quale il Giudice può ordinare alla PA di provvedere sull'istanza e, ove occorra, può nominare un Commissario ad acta perché disponga in via sostitutiva.
Da ciò si deduce come per il legislatore sia fondamentale la risposta ad ogni istanza da parte della Pubblica Amministrazione, la quale non può esimersi dal farlo.
Del resto, all'esito del giudizio sul silenzio dell'amministrazione il giudice amministrativo deve limitarsi a rilevare se un obbligo di provvedere vi sia e se il provvedimento sia stato emesso; sul punto i giudici rilevano che per l'articolo 31, comma 3, del Codice del processo amministrativo «Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione».
Seguendo tale impostazione codicistica ne deriva, da un lato, che se si tratta di «attività vincolata» il giudice può e non "deve" valutare se sia il caso di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa e – dall'altro – se si tratta di attività discrezionale l'Amministrazione deve in ogni caso svolgere i suoi compiti istituzionali e provvedere, con valutazioni che non possono essere sostituite da quelle del giudice.
Pertanto la sopracitata sentenza dichiara l'illegittimità del silenzio prestato, nel caso di specie dalla Regione e dal commissario ad acta, ma ovviamente dobbiamo estendere il principio a tutte le fattispecie ricollegabili e quindi generalizziamo parleremo di ente pubblico. Quindi con il presente pronunciamento sembra essere impartito l’ordine alle amministrazioni "silenziose" di concludere il procedimento mediante l'adozione di un provvedimento che provveda definitivamente in merito all'istanza di accreditamento istituzionale.

14 ottobre 2016

GLI IMMOBILI STORICI, L'ICI E IL REGIME AGEVOLATO

La Cassazione ci offre un interessante argomento di analisi: le modalità di riconoscimento delle agevolazioni Ici, previste per i fabbricati di interesse storico e artistico, precisando che per gli enti pubblici è da escludere la necessità di un provvedimento formale che riconosca l'interesse culturale, vigendo per questi una presunzione di interesse storico e artistico, ai sensi dell'articolo 12 del Dlgs n. 42 del 2004. 
Così con la sentenza del n. 19878/2016 i supremi giudici danno una lettura leggermente diversa da quella finora sponsorizzata dalla giurisprudenza di legittimità e amministrativa.

Dobbiamo premettere che il caso in giudizio dalla Cassazione riguarda le agevolazioni disciplinate dalla normativa Ici che prevedeva per gli immobili storici la determinazione di una rendita catastale calcolata facendo riferimento alla tariffa d'estimo di minor ammontare tra quelle previste nella zona di ubicazione del fabbricato, tutto ai sensi dell’articolo 2 del Dl n. 16/1993. Analogamente è opportuno ribadire come le conclusioni della Corte siano riferibili e quindi applicabili anche all'Imu, la quale imposta in realtà prevede una riduzione del 50 per cento della base imponibile, calcolata, questa volta, facendo riferimento alla rendita iscritta in catasto.
La sentenza in esame conferma, l’orientamento pacifico della giurisprudenza in base al quale, per gli immobili di proprietà privata il regime agevolativo si rende applicabile solo con la notifica della dichiarazione di interesse culturale, sicché l'apposizione del vincolo ha natura costitutiva, mentre, al contrario per gli immobili di proprietà pubblica si sono registrati in passato incertezze, derivanti dal non chiaro tenore delle norme.
Per beni culturali si intendono, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, del Dlgs n. 42/2004, le cose immobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché a ogni altro ente e istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
Il successivo articolo 12 prevede che questi immobili, se sono opera di autore non più vivente e sono stati costruiti da oltre settanta anni, sono sottoposti comunque al regime dei beni vincolati, fintanto che non è verificata l'effettiva sussistenza dell'interesse storico. Esisterebbe quindi una dichiarazione di interesse culturale ex lege e quindi anche per tali beni si pone il problema se l'inclusione nell'elenco dei beni di interesse storico o artistico abbia valore costitutivo ovvero dichiarativo.

Su tale fattispecie si è espressa la Corte Costituzionale, con sentenza n. 345/2003, ad avviso della quale l'esigenza di certezza nei rapporti tributari può essere soddisfatta da un atto dell'amministrazione dei beni culturali ricognitivo dell'interesse storico o artistico del bene; l'inserimento nell'elenco avrebbe però valenza dichiarativa e non costitutiva.
Sulla stessa scia si è espresso anche il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4499/2009, nella quale si evidenzia che l'immobile è sottoposto alla normativa vincolistica non per il solo fatto di essere posseduto da un ente pubblico ma perché caratterizzato da un intrinseco valore storico artistico; è così che le forme di protezione e di tutela possono operare solo se è stata accertata la sussistenza dell'interesse culturale.

Dalla giurisprudenza richiamata si può trarre la conclusione che per i fabbricati posseduti da enti pubblici e persone giuridiche private senza scopo di lucro l'accertamento dell'interesse culturale, a differenza dei fabbricati posseduti da privati, ha valore dichiarativo e non costitutivo, sicché una volta riconosciuto l'interesse storico o artistico, il possessore ha diritto a chiedere il rimborso, nei termini di decadenza previsti dalla normativa Ici/Imu.
E’ pertanto esattamente questo il principio che si evince dalla sentenza di cui sopra, riconoscendo il diritto al rimborso anche per le annualità antecedenti a quello di accertamento dell'interesse culturale.
Tuttavia, la stessa sembra non essere condivisibile nel momento in cui esclude, in generale, la necessità di un provvedimento formale ricognitivo dell'interesse culturale, ritenendo sufficiente l'appartenenza dell'immobile a un ente pubblico o privato senza fini di lucro. Detta analisi finale non appare condivisibile in quanto la verifica della sussistenza dell'interesse culturale può essere avviata o d'ufficio o a iniziativa del possessore. Questo ci porta alla ovvia conseguenza che se nessuno dà l’input per la verifica si rischia di far accedere ad un regime agevolativo ingiustamente chi potrebbe non averne diritto. 

7 ottobre 2016

LA RETTA SCOLASTICA TRASFORMA L'ENTE RELIGIOSO IN ATTIVITA' COMMERCIALE

Siamo di nuovo ad esaminare la materia dell'esenzione ici/imu degli immobili di proprietà ecclesiastici destinati allo svolgimento di attività di cui all'articolo 7 del D.Lgs 504/1992. La Suprema Corte con ordinanza n. 19039/2016 cassa il principio in base al quale che in tema di imposta comunale sugli immobili, l'esenzione dall'imposta prevista dal suddetto articolo 7, è subordinata alla compresenza di un requisito soggettivo, costituito dallo svolgimento delle attività da parte di un ente che non abbia come oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali (art. 87, comma primo, lett. c), del Dpr n. 917/1986, cui il citato articolo 7 rinvia), e di un requisito oggettivo, rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell'immobile di attività di assistenza o di altre attività equiparate, il cui accertamento deve essere operato in concreto, verificando che l'attività cui l'immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti, non sia svolta con le modalità di un'attività commerciale.
Quindi con questa ordinanza il giudice di legittimità segue condividendo l'orientamento ormai maggioritario sull'annosa questione dell’esenzione dall'imposta comunale sugli immobili di proprietà di enti religiosi, i quali, in più occasioni, hanno sostenuto l’applicazione della disposizione contenuta nell'articolo 7, comma 1, lett. i) del Dlgs n. 504/92.
Viene così a confermarsi la giurisprudenza secondo la quale l’esenzione si applica solo per quegli immobili all'interno dei quali si svolge un’attività non avente natura commerciale. Dunque le attività devono essere esercitate non in via commerciale, vale a dire attività a scopo di lucro, a servizio quindi della collettività con l'unico scopo di perseguire principi di solidarietà e sussidiarietà.

Sicche', il pagamento di un corrispettivo, per la fruizione dell’attività di assistenza o di altre attività equiparate svolte nell'immobile di proprietà dell’ente ecclesiastico, e' rivelatore dell'esercizio dell’attività commerciale e del collegato scopo di lucro.
Pertanto il fatto stesso che le rette siano condizione necessaria per usufruire dei servizi offerti è punto cardine della questione ed esclude a priori qualunque forma di esenzione. Inoltre non pare in alcun modo sufficiente ad escludere l'esercizio dell’attività non commerciali, il fatto che eventualmente le rette fossero più' basse rispetto ai prezzi di mercato.
Quello che si fa prevalere è appunto l'esercizio dell'attività commerciale, il pagamento di un corrispettivo per avere in cambio un dato servizio. Principio questo fondante delle pratiche a stretta rilevanza economica. 

3 ottobre 2016

LA PRESCRIZIONE 2016 E LA NOTIFICAZIONE DEGLI ATTI TRIBUTARI

La notifica dell’atto di accertamento è un atto di fondamentale importanza nel campo tributario, difatti esso rappresenta il momento conclusivo dell’attività di accertamento, consistente nella pretesa impositiva contenuta nell'avviso, vero e proprio perfezionamento dell’attività. E’ necessario definire che gli atti di accertamento sono atti ricettizi, ovvero assumono consistenza giuridica alla loro formulazione ma producono gli effetti in essi contenuti solo al momento della ricezione. 
E’ per questo che la notifica per detti atti diviene necessaria. Allora occorre che il soggetto attivo, il Comune, tenga una condotta atta a portare tale documento a conoscenza del destinatario mediante appunto l’adempimento della notificazione. 
La notifica, si perfeziona, quindi produce i suoi effetti, dalla data in cui il soggetto viene a conoscenza dell’atto. Uno dei termini molto spesso dibattuti che hanno portato e portano tuttora alla formazione di contenziosi tributari è quello relativo alla notifica degli atti impositivi a cavallo d’anno nel caso in cui decadano i termini di accertamento. La Corte di Cassazione si era già espressa con la sentenza n. 477 del 2002, nella quale dichiarava l’illegittimità del combinato disposto dell’art. 14 del Codice di procedura Civile e dell’art. 4 della legge 20 novembre 1982 n. 890 (notificazione degli atti a mezzo posta connessi con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevedeva che la notificazione si perfezionava, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario, anziché a quella, antecedente, di consegna. Secondo i giudici della Consulta, infatti, nel caso di utilizzo del servizio postale, ai fini del perfezionamento della notifica non deve farsi riferimento al momento in cui l’atto notificando viene portato a conoscenza del destinatario, ma è sufficiente che lo stesso venga consegnato dall'interessato all'ufficiale giudiziario “essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari sottratta in toto al controllo ed alla disponibilità del notificante medesimo”. Precisano, peraltro, i giudici che, relativamente al destinatario, rimane fermo “il principio del perfezionamento della notificazione solo alla data di ricezione dell’atto, attestata dall'avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo”. 
Quindi con la pronuncia esaminata viene riconosciuta la possibilità di una scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento di notifica. Quanto alle modalità, si osservano le disposizioni contenute nella legge n. 890/1982, il cui articolo 14 ha previsto che “la notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente …. Può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari, nonché, ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall'Amministrazione finanziaria, secondo le modalità previste dalla presente legge”. 
In concreto quindi, qualora l’atto dell’ufficio venga notificato a mezzo del servizio postale, dovrà aversi riguardo alla data in cui lo stesso è stato consegnato al soggetto incaricato di procedere alla notificazione. Il principio generale affermato dalla Consulta, perciò riferibile a ogni tipo di notificazione e, in particolare, a quella eseguita a mezzo del servizio postale, muove dall'assunto che è “palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di attività riferibili non al notificante, ma a soggetti diversi e perciò del tutto estranee alla sua disponibilità” (sentenza Corte Cost. n. 28/2004). 
La Corte prosegue rammentando che, per effetto della sentenza n. 477 del 2002, risulta ormai presente nell'ordinamento processuale civile, fra le norme sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale – relativamente alla funzione che, sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – “il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario”. 
Negli ultimi anni la giurisprudenza si è espressa unanimemente riguardo agli effetti sul notificante e sul destinatario della notifica, consolidando i principi pacifici con la suddetta sentenza 477/2002 e successivamente ribaditi dalla Consulta, nella sentenza 28/2004. 
Pertanto gli effetti della notificazione eseguita a mezzo del servizio postale si producono: per il soggetto notificante: al compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ovvero la consegna dell’atto da notificare all'agente notificatore, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari sottratta in toto al controllo del notificante medesimo; per il soggetto destinatario: al momento della ricezione dell’atto, della notificazione solo alla data di ricezione dell’atto, attestata dall'avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo. Tale principio “ha carattere generale e trova applicazione non solo con riferimento agli atti processuali, ma anche con riferimento agli atti d’imposizione tributaria”.
Di conseguenza, il termine per verificare la regolarità della notificazione dell’avviso di accertamento spedito a mezzo posta “coincide con la data di spedizione del plico e non con quella della sua ricezione da parte del contribuente”. In base al principio di “anticipazione”, gli effetti di ogni tipo di notifica devono essere ricollegati, per quanto riguarda il notificante, al solo compimento delle formalità fissate dalla legge a suo carico, vale a dire alla consegna dell’atto all'agente notificatore, essendo la successiva attività di quest’ultimo sottratta al controllo e alla sfera di disponibilità dello stesso notificante.

Si rammenta infine che entro il 31/12/2016 si prescriveranno per tutti i tributi, ai sensi della Legge n. 296/2006, l’anno d’imposta 2011 relativamente alle violazioni per parziale versamento e/o infedele denuncia; l’anno d’imposta 2010 nel caso di dichiarazioni omesse, che quindi, per il 2010, dovevano essere presentate nel 2011.

LA RIVOLUZIONE INFORMATICA COLPISCE LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Ai sensi dell’articolo 40 del D.Lgs. 85/2005 “Codice dell’amministrazione digitale”, si dispone che le pubbliche amministrazioni “formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici”. Le regole tecniche necessarie ai fini della corretta esecuzione sono dettate in conformità ai requisiti tecnici di accessibilità di cui all'articolo 11 della legge 4/2004, alle discipline risultanti dal processo di standardizzazione tecnologica a livello internazionale ed alle normative dell'Unione europea.
Inoltre il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 13 novembre 2014, in attuazione dell’articolo 71 del Codice dell’amministrazione digitale ha statuito le “regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici nonché di formazione e conservazione dei documenti informatici delle pubbliche amministrazioni ai sensi degli articoli 20, 22, 23-bis, 23-ter, 40, comma 1, 41, e 71, comma 1, del Codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005”.
L’articolo 17, comma 2 del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 13 novembre 2014, emana inoltre che le pubbliche amministrazioni devono adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti entro e non oltre diciotto mesi dall'entrata in vigore dello stesso decreto e, conseguentemente entro e non oltre il 12 agosto 2016. 

Invero ai sensi dell’art. 1, comma 87, della Legge 28 dicembre 1995 n. 549, secondo cui “la firma autografa prevista dalle norme che disciplinano i tributi regionali e locali sugli atti di liquidazione e di accertamento è sostituita dall'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, nel caso che gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati, non si potrà più considerare come "documento originale" neppure il documento generato, nella materia tributaria, in modalità automatica e riportante la dicitura “firma autografa sostituita a mezzo stampa”. Dunque, il nominativo del funzionario responsabile per l'emanazione degli atti in questione, nonché la fonte dei dati, devono essere indicati in un apposito provvedimento di livello dirigenziale.
Il documento in versione originale sarà dunque, per contro, quello prodotto e firmato digitalmente, ferma restando la possibilità di disporre di copie analogiche (copie stampate).
Ovvio rimane il concetto per il quale le peculiarità che connotano le specifiche attività degli uffici tributari, nonché le modalità di formazione degli atti tributari, debbono essere tenute senz'altro presenti nel processo di digitalizzazione. Tuttavia, tali caratteristiche non sono idonee a sottrarre, generalmente, i documenti tributari, dall'applicazione del codice dell'amministrazione digitale. Invero soltanto alcune tipologie di documenti tributari restano sottratti all'obbligo di digitalizzazione, sul piano operativo, occorre procedere effettuando una rigorosa distinzione tra le diverse categorie di documenti, stabilendo per ogni fattispecie la modalità da attuare nello specifico.
Nel dettaglio scopriamo le attitudine specifiche dei principali documenti.

Istanze di pagamento, atti d'ingiunzione di pagamento e atti del procedimento impositivo
Le istanze di pagamento, gli atti di ingiunzione e gli atti del procedimento impositivo sono documenti propri dell’Ente Locale. Ne consegue che la versione originale deve essere prodotta e firmata digitalmente. Con riguardo alla formazione del documento amministrativo informatico, l’articolo 3 del codice dell'amministrazione digitale individua, tra i metodi di formazione del documento informatico, quello della redazione tramite l’utilizzo di appositi strumenti software. In pratica, gli originali delle istanze di pagamento, degli atti di ingiunzione e degli atti impositivi debbono essere formati con l’utilizzazione di programmi gestionali di natura informatica, e secondo le regole tecniche illustrate all'articolo 71 del codice.

Verbali sottoscritti anche dal contribuente e atti di adesione sottoscritti dal responsabile dell'ufficio e dal contribuente. I processi verbali sottoscritti anche dal contribuente nell’ambito delle attività di controllo dell’Ufficio, a seguito di sopralluoghi, ispezioni e verifiche o di contraddittorio in ufficio, sono esclusi dall'obbligo di digitalizzazione. Ciò in quanto, nella formazione di tale tipologia di documenti redatti nell'esercizio delle funzioni ispettive o di controllo, gli uffici tributari degli enti non procedono “in via unilaterale”, ma, si concretizzano con l’ausilio del contribuente. Ne consegue che la descritta modalità di formazione dei processi verbali, in quanto sottoscritti anche dal contribuente, esclude tali documenti dalla nozione di “propri documenti”, di cui all’articolo 40 del Codice. Analogamente dicasi con riferimento agli atti di adesione, formati a conclusione di un procedimento in base al quale l’accordo si raggiunge con la partecipazione attiva del contribuente, il cui atto conseguente non costituisce, quindi, un documento “proprio” dell'Ente Locale, tant'è che si tratta di atti sottoscritti da ambedue le parti.

Notifica dei documenti informatici. La disposizione contenuta nell'articolo 48, comma, 1 del codice dell'amministrazione digitale secondo cui “la trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri”. L’esigenza di disporre di una copia “cartacea” ai fini della notifica può essere assicurata attraverso il rilascio di una copia analogica conforme al documento informatico originale, attestata da un pubblico ufficiale. Va dunque richiamato il disposto dell’art. 23 del codice “Copie analogiche di documenti informatici”, il cui comma 1 dispone che “le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all'originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”. In assenza dell’attestazione del pubblico ufficiale, viene in rilievo altresì il comma 2 dell’art. 23, secondo cui “le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale se la loro conformità non è espressamente disconosciuta”.

Comunicazioni dei documenti informatici Per le comunicazioni degli atti tributari vanno richiamate, in via generale, le disposizioni del codice in tema di domicilio fiscale. Al riguardo, il comma 1 dell’articolo 3-bis, al fine di facilitare la comunicazione tra pubbliche amministrazioni e cittadini, contempla la facoltà di ogni cittadino di indicare alla pubblica amministrazione, secondo le modalità stabilite al successivo comma 3, un proprio indirizzo di posta elettronica certificata quale suo domicilio digitale. A sua volta, il comma 4bis dell’articolo 3-bis dispone che, in assenza del domicilio digitale di cui al comma 1, le amministrazioni possono predisporre le comunicazioni ai cittadini come documenti informatici sottoscritti con firma digitale o firma elettronica avanzata, da conservare nei propri archivi, ed inviare ai cittadini stessi, per posta ordinaria o raccomandata con avviso di ricevimento, copia analogica di tali documenti sottoscritti con firma autografa sostituita a mezzo stampa predisposta secondo le disposizioni di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 12 dicembre 1993, n. 39. Pertanto per le comunicazioni degli atti tributari possono trovare applicazione le disposizioni relative ai cittadini privi di domicilio digitale, con conseguente comunicazione di copia analogica dei documenti tributari informatici.

Gli atti e i documenti del contenzioso tributario
Non vanno digitalizzati gli atti processuali del contenzioso tributario, per i quali vanno osservate al contrario le disposizioni processuali di cui al Dlgs 546/1992. Non si applicano le disposizioni relative alla formazione dei documenti informatici. Gli originali, come pure le copie degli atti e dei documenti del processo tributario sono formati, notificati e depositati dall'ente locale, così come dal contribuente, su supporto cartaceo, fatti salvi i casi in cui trovi già attuazione la disciplina dell’uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario. A tutela del diritto di difesa del contribuente, così come della pretesa erariale, viene opportunamente garantita comunque l’originalità del documento, facendo sì che la copia cartacea contenga anche l’attestazione di conformità all'originale secondo la previsione contenuta nel comma 1 dell’articolo 23 del Codice, per cui le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all'originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

Però, il Consiglio dei Ministri del 10 agosto 2016 ha approvato definitivamente il decreto di modifica al Codice in oggetto: tale decreto è in attesa di pubblicazione sulla G.U. e non ne è stato divulgato il testo, però nel comunicato del Consiglio dei Ministri n. 125 è riportata la seguente frase: “Sono stati recepiti gran parte dei suggerimenti della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato e sono state integralmente accolte le condizioni contenute nei pareri delle Commissioni parlamentari”. Ebbene, nel parere della Commissione Affari Costituzionali è presente la seguente proposta: “al fine di garantire l'aggiornamento delle regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici, si disponga la sospensione dell'efficacia del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 13 novembre 2014 per un tempo congruo all'emanazione di nuove regole tecniche pienamente conformi alle disposizioni del Codice”.
Dal coordinamento tra il Comunicato 125 e il suddetto parere della Commissione Affari Costituzionali si deduceva che la scadenza del 12 agosto era da considerarsi sospesa.

Ma il 13 settembre 2016 è stato pubblicato in G.U. il Dlgs. n. 179 del 26 agosto 2016, recante modiche al “Codice dell’Amministrazione digitale” - Cad (Dlgs. n. 82/05), con il quale si statuisce un termine perentorio entro il quale per i Comuni diverrà efficace l’obbligo di formare gli originali dei documenti con mezzi informatici e le pubbliche amministrazioni saranno tenute altresì a produrre i propri documenti originali esclusivamente in modalità digitale, nonché a gestire digitalmente l’intero ciclo di vita del documento. Bisogna ormai entrare nell'idea della digitalizzazione.
I Comuni hanno perciò tempo, per lo swich off al digitale, fino al prossimo 14 gennaio 2017 per adeguarsi agli obblighi di dematerializzazione dei documenti. 

Ci sentiamo sereni nel concludere che con questa rivoluzione, che potremmo denominare “Digitalizzazione della Pubblica Amministrazione” ci si sta apprestando a mandare in pensione la vecchia e cara dicitura “firma autografa sostituita a mezzo stampa” e con lei l’originalità irripetibile dei documenti (almeno per la maggior parte dei casi).
 
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